In Yemen è di scena un massacro. I dati ufficiali, riportati dalle Nazioni Unite, secondo fonti locali sono da considerarsi al ribasso: almeno 540 morti, 1700 feriti, 100mila rifugiati dal 19 marzo ad oggi. Sono morti per le violenze in corso, i bombardamenti sauditi contro città affollate come la capitale Sana’a, per gli attentati suicidi nelle moschee e i quartieri sciiti, per l’artiglieria Houthi. Tra loro almeno 74 bambini.

In Yemen si muore non solo di raid: le condizioni sono estremamente precarie, con un conflitto interno ed esterno che peggiora drasticamente la vita del paese più povero del Medio Oriente. Alla denutrizione cronica che affligge buona parte della popolazione, si aggiunge ora la mancanza di acqua potabile, elettricità (16 milioni gli yemeniti senza corrente elettrica), medicinali.

Tra i target del terrore portato dalla guerra civile tra minoranza sciita e forze governative, ma soprattutto dai raid della coalizione guidata da Egitto e Arabia Saudita, ci sono anche i servizi medici: tre i dottori morti mentre portavano soccorso alla popolazione, tre le ambulanze confiscate dai combattenti. La Croce Rossa grida all’emergenza: pronti a partire ci sono 48 tonnellate di aiuti, ma nella pratica è impossibile farli arrivare alla popolazione.

Ieri l’ultimo di una serie di massacri contro i civili: i bombardamenti sauditi hanno colpito una scuola, uccidendo almeno tre studenti. L’obiettivo, dicono a Riyadh, era la base militare al Hamza utilizzata dai ribelli Houthi nella provincia di Ibb, a sud. Quello che l’Arabia Saudita definisce un incidente è l’esempio del caos che attanaglia lo Yemen, preda di attori interni, ma soprattutto regionali: creare la paura necessaria a portare la popolazione a schierarsi con quello che Riyadh considera l’unico potere legittimo e possibile, il governo del presidente Hadi, e schiacciare così la ribellione Houthi.

Che, però, nonostante i raid, continua ad avanzare: la marcia da Sana’a, occupata a settembre, a Aden, città costiera e capitale provvisoria dell’esecutivo Hadi, prosegue con la conquista di luoghi strategici, in primis il porto della città, principale punto di transito del greggio del Golfo diretto in Europa.

La resistenza Houthi spaventa anche gli Stati Uniti che, mentre l’Onu rendeva noti i dati del massacro, annunciavano l’invio di armi alla coalizione anti-sciita. Dall’altra parte sta la Russia che al Consiglio di Sicurezza ha chiesto di sostenere un cessate il fuoco umanitario, per soccorrere i feriti.

Dietro le quinte resta l’Iran, sostenitore del movimento sciita Houthi e principale preda dell’asse sunnita nato dal ventre della Lega Araba. Impegnato a strappare l’accordo sul nucleare, Teheran ha preferito rispondere solo a parole, almeno ufficialmente, alla violenta offensiva saudita. E, forte delle vittorie in Iraq, si pone come pacificatore: ieri da Ankara il presidente iraniano Rowhani a due voci con la controparte turca ha chiesto la fine del bagno di sangue yemenita e «il cessate il fuoco immediato».

Un incontro dal forte potere simbolico: Erdogan ha accusato Teheran di essere dietro l’avanzata Houthi e ha aderito con entusiasmo alla coalizione anti-sciita. Ma come spesso accade a vincere sono gli affari: i due paesi si sono accordati per incrementare gli scambi commerciali fino a raggiungere il valore di 28 miliardi di dollari entro l’anno. Erdogan, che da sempre ha come obiettivo l’indebolimento dell’asse sciita Damasco-Teheran, non può non tenere conto del cambio di equilibri nella regione, a favore dell’Iran.

A guadagnare terreno dal caos yemenita è al Qaeda nella Penisola Arabica, il più consistente braccio dell’organizzazione islamista: ieri i qaedisti hanno attaccato un valico di confine con l’Arabia Saudita, uccidendo due soldati, nella provincia di Hadramout, e assumendo il controllo di una base nei pressi della città di Manwakh, a nord est di Sana’a.