La serie più seguita sulla Tv via cavo americana è la grande saga di una famiglia multimiliardaria, affamata di potere, incalzata dai tempi che cambiano, che si dimena in feroci lotte per l’eredità sullo sfondo di un mondo spietato a base di corruzione politica e finanziaria ad altissimi livelli. No, non è la premiatissima Succession, la serie Hbo, con Brian Cox nei panni di un tycoon mediatico ispirato a Rupert Murdoch.

È UN SUCCESSO molto più grosso e più nascosto. Giunta alla quarta stagione (conclusasi nell’abituale grand guignol in Usa domenica sera mentre in Italia l’ultima puntata arriverà martedì prossimo su Sky Atlantic, e poi on demand anche su Now ), Yellowstone è serial via cavo dai rating più alti in Usa, con picchi d’ascolto intorno ai 12 milioni di spettatori per puntata, superati solo da un paio di polizieschi in onda sui network. Gli orizzonti immensi delle montagne del Montana, invece dei canyon di vetro di New York, il ranch invece del superattico, jeans e flanelle invece delle grisaglie di alta sartoria, Yellowstone non è un regular degli Emmy e dei Golden Globes. Ed è abitualmente ignorata dalla critica, nonostante le sue origini «alte», hollywoodianamente parlando – con Kevin Costner e Art Linson (tra gli altri, ha lavorato con Demme, Zemeckis, Fincher, De Palma e Michel Mann) produttori esecutivi e lo showrunner Taylor Sheridan, che per il cinema ha sceneggiato Hell or High Water e i due Sicario e scritto/diretto un successo di Sundance, Wind River (la sua ultima regia, Those Who Wish Me Dead, con Angelina Jolie, è stata invece un flop).
Una specie di Re Lear in chiave di western contemporaneo, Yellowstone è – come Succession- un discendente dei Dallas e Dynasty che dominavano i ratings anni ’80. Quello che lo differenzia da analoghe saghe famigliari che si dilaniano a vicenda su sfondi sontuosi che lo spettatore medio può solo sognare dalla poltrona di casa è il suo profondo, sfacciatamente inattuale, amore per «il western». Un amore che ne spiega sia il vasto successo che lo snobismo con cui la serie viene trattata nei centri del potere dello spettacolo, sulle due coste.

NASCOSTO dietro alla storia di John Dutton (Costner), proprietario del più grosso ranch del Montana e dei suoi figli (belli, ambiziosi e affetti da gradi diversi di psicopatologia), impegnati, un una lotta letteralmente all’ultimo sangue per difendere «la terra», l’amore per il West di Yellowstone non è un fatto di cinefilia, di elegia pura o di epica, quanto di lifestyle. Più di ogni altra cosa è il sogno (impossibile, lo si sa dall’inizio che è una tragedia) di una lotta contro il tempo – che contrappone la vita quotidiana di un ranch d’allevamento (debitamente «integrato» per razza e per gender) all’invasore esterno. Nella brillante equazione di Sheridan, i ricchi e spietati Dutton possono allearsi con i pochi indiani d’America della zona, perlopiù poverissimi – entrambi «nativi», entrambi a rischio d’estinzione. La barbarie è rappresentata da Wall Street, dagli speculatori che vogliono riempire la valle di condomini di lusso, costruire un mega-aeroporto e fare di questo paradiso «la prossima Park City» (l’accenno alla stazione sciistica dello Utah dove Redford fondò il suo Sundance non è casuale: quel paesaggio è stato devastato da un’alluvione di seconde case di ricchi losangelini). Le lotte di potere tra i Dutton, pur rimanendo gustosamente iperboliche, di stagione in stagione si sono fatte un po’ ripetitive. Ma sono aumentate le scene di vita quotidiana tra i cowboy del ranch o di rodeo. E, come il Marvel universe, Yellowstone ha trasbordato i confini della sua fiction con due spin off – il primo, 1833, sull’arrivo degli antenati dei Dutton nella valle, è già in onda.
Il secondo 6666 sarà ambientato in un leggendario ranch texano oggi di proprietà dello stesso Sheridan. Persino gli spot che punteggiano la serie sono a tema western – stivali, pick up truck aggressivissime, birra, snack food al peperoncino. Per chi ha voglia di cercare di capirlo, il sogno dell’«altra» America è sul Paramount Channel.