Zvi Luria è un ingegnere stradale di settantadue anni, in pensione da cinque. Direttore di divisione presso il Dipartimento israeliano dei lavori pubblici che gestisce l’intera rete viaria, per quarant’anni ha progettato, nel nord del paese, strade, autostrade, svincoli, incroci. Competente e stimato dai colleghi per esperienza e professionalità, una volta lontano dal lavoro, Zvi Luria entrerà senza troppa fatica in una quotidianità scandita da liturgie consuete, nel perimetro della casa di Tel Aviv e nei cerchi concentrici fuori dalle mura. La sua vita scorre lungo vie canoniche, senza ostacoli, nella ripetizione di gesti abituali e inconsunti: tutto bene fin qui, tutto rodato e conosciuto. Ma un giorno il tranquillo binario della quotidianità scarta leggermente: Zvi Luria esce dall’asilo con un bambino che non è suo nipote, senza accorgersene. Un incidente lieve, che subito rientra, allineandosi tuttavia ad altri fatti analoghi, accaduti di recente: piccole distrazioni, atti compiuti per eccesso o per difetto, tentativi di richiamare parole i cui contorni sfumano nell’indistinzione, codici numerici che saltano, nomi che all’improvviso spariscono dalla mente. Basta questo per portare Zvi Luria nello studio di un neurologo, che gli diagnostica i primi accenni di demenza senile.

Invito a forzare il ricordo
Il tunnel, ultimo romanzo di Abraham B. Yehoshua, ora da Einaudi nella traduzione elegante e accurata di Alessandra Shomroni («Supercoralli», pp. 344, € 20,00), si apre sui negativi della risonanza magnetica di Zvi, con il neurologo che prima scandisce le sillabe, asettiche e inesorabili, della diagnosi, poi indica con forza modalità di resistenza per rallentarne il corso. Un invito, forte e convinto, a non fuggire la vita, a procedere controsenso rispetto al crepuscolo della mente, a forzare il ricordo, a trattenere i nomi che dileguano. Soprattutto, a riannodare il filo con la propria professione, svolgendo consulenze o lavori a tempo ridotto. Su questo abbrivio, complice la festa di pensionamento di un collega e la tenace insistenza della moglie, nasce la collaborazione con il giovane Assael Maimoni, che ha preso il suo posto ai lavori pubblici, impegnato nel progetto di una strada segreta per l’esercito, nel deserto del Negev, a sud di Israele. Del giovane ingegnere, Zvi Luria diventa consulente senza compenso e assistente volontario, nel tentativo di risalire la china della mente offuscata o perlomeno di mantenerne desta la sintassi logica e operativa.
Il tentativo di fortificazione della memoria e di blindatura dei suoi contenuti – operazione tanto strenua, quanto commovente e in fondo tragica – non è certo in grado di arrestarne l’allagamento, inarginabile per natura, e la confusione emotiva che ne deriva. Mentre traccia la curva discendente nella coscienza di Zvi Luria, Yehoshua mostra un’incredibile abilità nel comunicarne il ritmo progressivo e il susseguirsi delle stazioni. Con un’empatia che spesso non ammette filtri e che partecipa del tentativo di contenere la frana memoriale, il lettore vive le diverse situazioni che coinvolgono il protagonista, quasi a respiro trattenuto, nell’attesa, forse persino nella speranza che quel certo nome non gli sfugga, che quella determinata combinazione di numeri gli riaffiori alla mente, che quel percorso in auto lo porti alla giusta destinazione.

Una famiglia tra le rovine nabatee
Il lento ma irreversibile disallineamento mentale – segnato da una catena di puntuali, sempre più ravvicinati, congedi dalla grammatica della ragione – non impedisce a Zvi Luria di sostenere e difendere con convinzione, e con moto inverso rispetto al rarefarsi dei ricordi, la dispendiosa perforazione di un tunnel all’interno di una collina, dove vive una famiglia di rifugiati palestinesi apolidi, nascosti tra le antiche rovine di un insediamento nabateo. Spianare l’altura per facilitare il tracciato della strada militare ne metterebbe a rischio l’incolumità. Il mistero di questa gente senza identità, non più palestinese e non ancora israeliana, porta il fuoco della narrazione sul conflitto medio-orientale, diventando così il correlativo oggettivo, quasi la formula che iconicamente racchiude lo sgretolamento identitario del protagonista. E lo sgranarsi delle sue immagini mentali diventa metafora di un quadro geopolitico che sembra consegnato a un inarrestabile ottundimento. Conferma di questa dimensione del romanzo è il medaglione narrativo, forse un po’ troppo sbalzato e perciò tendente al didascalico, con la sosta dei due ingegneri presso la tomba di Ben Gurion.
Il tunnel è però anche altro. Sotto la maglia dei motivi ricorrenti nella narrativa di Yehoshua – l’identità, i sentimenti, la malattia, l’ambivalenza della memoria, la componente politica – e dietro l’andamento riconoscibilissimo della sua prosa, si distende una trama sotterranea che attraversa il romanzo, agganciandosi a un nucleo fra i più antichi e fondamentali della tradizione ebraica. Lo sfarinarsi dei nomi, il loro disperdersi come polvere nella mente del protagonista è, nella sua insistita iterazione, forse il tema conduttore dell’intero libro. Difficile non intravvedere – dietro la sequela di nomi dimenticati, deformati e dunque profanati, a stento trattenuti nel ricordo, poi di nuovo polverizzati, nomi che il protagonista inanella lungo tutto il corso della storia – quel retroterra ebraico che accomuna la nominatio rerum adamitica, il metodo midrashico e il pensiero cabbalistico, ponendo, alla base del linguaggio, una fondamentale consustanzialità tra nomi e cose. Lungi dall’essere involucro convenzionale, il nome – nella sua origine divina, nella sua terribilità che lo rende, nei casi più estremi, irrivelabile e impronunciabile – cattura l’essenza della cosa, discopre la sostanza ultima di chi lo porta. Come non sentire per esempio, dietro il capitolo «Restituiscimi il mio nome e io ti lascerò in pace» – costruito intorno all’incapacità di Zvi Luria di richiamare il nome di un’antica seduttrice e all’irritazione di lei – il suono familiare di antichissime tradizioni, su tutte la lotta di Giacobbe con l’essere misterioso, che il patriarca tiene avvinghiato tutta la notte per strapparne una benedizione e una rinominazione («Lasciami andare perché è spuntata l’aurora» – «Non ti lascerò se non mi avrai benedetto» – «Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele») e che però mai rivelerà il suo nome («Giacobbe allora gli chiese: «Dimmi il tuo nome». Gli rispose: «Perché mi chiedi il nome?». E qui lo benedisse). Sempre in questo senso, il deserto del Negev è teatro di buona parte dell’azione: uno scenario primordiale e materico, legato a eventi d’inizio e di fondazione, richiamati, forse un po’ troppo scopertamente, dal nome dello hotel «Beresheet», a mimare l’ebraico bereshit, «in principio», che designa il Libro della Genesi. È infine difficile non riconoscere, in filigrana, un rivolo cabbalistico, quando la narrazione accosta il segreto dei nomi e del loro fondo oscuro e impronunciabile, quando si toccano le loro infinite possibilità combinatorie e le loro, anche impacciate, sovrapposizioni confusive. Forse è addirittura l’ironica e laica ripresa di questa tradizione a emergere, a tratti, in piena luce: il nome del protagonista Zvi Luria – con il suo rimando fonetico al celebre cabbalista di Safed, Isaac Luria – potrebbe mostrare questa direzione.