Yarny, dall’inglese «yarn» che significa filo, è un gomitolo di lana rosso vagamente antropomorfo con due occhietti bianchi. È il protagonista di Unravel, poemetto interattivo di Coldwood Interactive, un piccolo team svedese indipendente. Unravel, per Playstation 4, XBox One e Pc, ci induce a giocare con i ricordi di un’anziana donna, dall’arcadia di una dolce infanzia fino al tetro crepuscolo della fine e del lutto; d’altronde il termine «yarn» può anche indicare un lungo racconto, una storia che riassume l’esistenza, quella che la mitologia greca, romana e nordica indica fatalmente contenuta nel filo intessuto dalle Moire, dalle Parche e dalle Norne.

Tuttavia, malgrado il peso atlantico di tanta gravità sulle sue lanose membra, Yarny ci trasporta in un’avventura aggraziata e soave anche quando malinconica, dal tono che nei momenti più elegiaci corrisponde all’ultima musica di Schubert, soprattutto al lirismo maestoso e intimo risuonante nell’adagio del Quintetto per Archi, una superficie di sublime semplicità sotto la quale si agitano i contorti fantasmi dell’abisso talvolta dolorosamente affioranti.

Strutturato come un «platform» bidimensionale a scorrimento, forma ancestrale del videogioco, Unravel è composto da diversi scenari foto-realistici dalla bellezza struggente che diviene favolosa a causa delle ridotte dimensioni del protagonista: i fiori e le erbe di un giardino, l’ordinata quiete domestica di mobilia e oggetti, gli scogli tra cui scivolano gentilmente le onde, il manto di foglie che ricopre il suolo di un bosco autunnale. Solo in una fase più avanzata del videogame dovremo trascorrere per zone più inquietanti e perigliose come tra le lamiere contorte e le macchine di uno sfascia-carrozze, tra i bidoni occultati di rifiuti tossici o sferzati dalla neve che cade sulle lapidi di un cimitero campestre. Ma non si percepisce mai un sentore di minaccia, solo di tristezza e afflizione, i veri nemici di Unravel che sconfiggiamo accettandoli anziché combattendoli.

Risolvendo semplici enigmi ambientali che non distraggono mai dalla contemplazione di scenari dipinti con tanta sensibilità artistica e verismo incantato, vediamo materializzarsi «giganteschi» e mitici ricordi vitali che risultano epici nella loro quotidianità. Non c’è ansia, solo meraviglia in Unravel, come quando scorgiamo le renne pascolare o veniamo trasportati sul bianco-nero dorso di una gazza ladra; la natura ci appare miracolosa e vincente, anche se contaminata. Attraverso la piccolezza di Yarny non c’è nulla che non sia maestoso e stupefacente, persino l’oggetto più comune o una pietra muscosa.

Esperienza più che intrattenimento ludico, Unravel è un’altra dimostrazione delle molteplici potenzialità narrative, estetiche e artistiche del videogioco, un conciso elogio alla memoria che si può terminare in poche ore come una novella esemplare. Seguendo e controllando i passi di Yarny alla ricerca di un tempo perduto e ritrovato con serenità, viviamo un’epopea intimista che diviene progressivamente la nostra, echeggiando con i ricordi personali dell’individuo che la vive.

Unravel è godibile a ammirabile a qualsiasi età, sebbene la sua poesia sia comprensibile soprattutto da un pubblico maturo, per il quale può essere un balsamo, forse ingannevole ma teneramente consolatorio, contro la perentoria sentenza wagneriana cantata da Erda, madre delle Norne: Tutto ciò che è finisce.