La lingua dell’Amazzonia Urihi , in lingua Yanomami, significa foresta, ma anche terra e mondo; un intero universo: uomo, natura, storia e cultura. Gli Yanomami, oggi, sono circa 35mila persone (secondo i dati del 2011) e il loro territorio amazzonico tradizionale è diviso tra Brasile e Venezuela. Un’etnia border line, sempre a rischio di cancellazione, costretta a difendere habitat, cultura e diritti. Rispetto agli anni Ottanta del secolo scorso, molte cose sono cambiate, sul piano della conoscenza e della coscienza – in Brasile e nel mondo – della loro identità e della loro lingua. Molti ne hanno parlato, ma Loretta Emiri è, davvero, una testimone d’eccezione; li ha incontrati quasi quarant’anni fa – nel pieno della dittatura brasiliana – e da allora la loro battaglia è diventata anche sua: «Sono tornata in Italia, ma solo fisicamente; in realtà sto continuando a vivere in Amazzonia». Umbra di nascita, oggi abita a Fermo da dove, alla fine degli anni Settanta, grazie alla decisione presa durante un campo di lavoro dei Missionari della Consolata, ebbe inizio l’esperienza che l’avrebbe portata ad immergersi in quel mondo, a studiare, scrivere e battersi per «farlo continuare ad esistere».
La incontriamo nella sede fermana dell’Istituto per la Storia della Resistenza e della Biblioteca provinciale di Storia contemporanea (un altro mondo che, con i tagli agli Enti locali, rischia l’estinzione). Parla a lungo, con una luce negli occhi che rivela l’amore profondo per quella civiltà; un amore lungo una vita, di quelli che solo la conoscenza e il rispetto sanno nutrire: «La mia era una famiglia operaia, e riuscii a diplomarmi come Segretaria d’Azienda; ma ho sempre voluto andarmene dal mio paese, volevo partire. Voglia di andarmene e passione per il Terzo Mondo erano, allora, un magma indistinto. La scoperta del mondo e dei suoi conflitti è una grande scuola». «Volevo partire – aggiunge – ma non come suora, bensì come laica. Solo che, all’epoca, i missionari laici erano indirizzati verso l’Africa; quella del Brasile fu una casualità.

Del lavoro dei missionari che operavano con gli Yanomami, e che conobbi durante il campo di lavoro, apprezzavo il fatto che fossero più attenti ai problemi e ai bisogni di quel popolo, che all’evangelizzazione. All’inizio fu così, poi cambiarono molte cose e, tra l’altro, come donna sola ebbi problemi a restare nella missione; per cui, per continuare il mio lavoro dovetti arrangiarmi coi contatti che, nel frattempo, avevo costruito. Ma senza la “copertura” della chiesa cattolica, allora durante la dittatura, non sarebbe stato possibile fare alcunché».

Loretta parte alla fine degli anni Settanta, per il Roraima, al confine col Venezuela; dopo un breve periodo a Boa Vista, raggiunge la foresta e la Missione nel sud ovest della regione: «L’incontro col mondo Yanomami, all’inizio, è stato segnato da una dura battaglia sanitaria, molto concreta e lunga, contro le epidemie; era in corso la costruzione di una strada (in terra battuta) che doveva unire il Brasile alla Colombia.

Quell’opera, tra l’altro rimasta incompiuta, non si limitava a distruggere lo Urihi, il loro mondo, ma veicolava malattie mortali, in assenza di anticorpi. Poi venne la fase delle vaccinazioni e, sempre più impellente, il desiderio, ma soprattutto il bisogno, di una comunicazione diretta, che non fosse mediata dalla lingua dei colonizzatori bianchi, che, tra l’altro, in pochi parlavano, e in modo molto limitato».
La lingua Yanomami, la passione e il lavoro di una vita: «Le lingue, in realtà. La famiglia linguistica yanomami ne conta ben quattro. Come chiunque si sia voluto avvicinare alla loro cultura, anch’io ho fatto tesoro degli studi di Ernest Migliazza, un grande linguista che ho avuto il privilegio di conoscere a Siena, anni fa, ad un incontro cui intervenimmo entrambi. Io ho potuto approfondire, lo yãnomamè». Ed è di questa lingua che Loretta Emiri pubblica un dizionario di quasi 1700 vocaboli (Dicionário Yãnomamè-Português, San Paolo 1987): «Sì, nella lingua viene contenuto e coltivato l’universo culturale di un popolo; la sua cancellazione comincia dalla lingua – oltre che dal suo ambiente – e, dunque, occorreva che anche i volontari internazionali o brasiliani la conoscessero; era essenziale per rovesciare la piramide gerarchica culturale, che si determina anche nelle migliori intenzioni umanitarie. Se alteri le parole, alteri la struttura portante dell’identità e della dignità di un popolo.

Possedere (e far possedere anche ai brasiliani) la ricchezza di quella lingua – che, tra l’altro in alcuni aspetti dello habitat botanico e zoologico ha un altissimo livello di specializzazione, quasi non usa termini generici – significa non solo difenderne l’esistenza, ma, ovviamente, costruire una relazione vera, tra pari; anzi, rispetto alle dinamiche contemporanee, imparare nuove e sempre più necessarie idee della vita e del rapporto con la natura».

Lo sguardo di questa donna preziosa, tanto mite quanto determinata, si accende ancor più: «Mi chiamavano Horeto Mysi, significa “uccellino della terra di sopra”; perché la loro idea del cosmo è costituita da tre strati, tre dischi: la nostra, quella della vita; una di sotto e una di sopra, dove andremo dopo la morte. Sopra andranno solo coloro che in vita sono stati generosi; la generosità è, per il popolo Yanomami, un valore assoluto, che struttura il vivere quotidiano e l’organizzazione sociale». Si capisce come il suo interesse vada ben al di là degli aspetti linguistici e antropologici; Loretta è approdata alla linguistica partendo dall’umanità e dalla storia: «E anche dai bisogni concreti – insiste – dovevamo e volevamo parlare con loro nella loro lingua, saltando anche la mediazione degli interpreti. Sistematizzare una lingua orale è difficile, ma è anche una grande sfida».

Anche a seguito della svolta «evangelizzatrice» del Vescovo del Roraima, torna in Italia nell’82; ma già due anni dopo riesce a farsi assumere dal Segretariato dell’Educazione dello Stato di Roraima (diretto, allora, proprio da una suora della Consolata). Sono anni difficili, tanta parte della Chiesa brasiliana lavora per gli indios e, naturalmente, non pochi sono i sostenitori della Teologia della Liberazione; ma la repressione è forte, anche i pericoli; pochi anni prima, nel Mato Grosso erano stati uccisi, dai fazenderos, un prete cattolico e un indio Bororo, e le carceri della dittatura sono piene, gli scomparsi non si contano: «Può sembrare difficile, e lo fu; ma in quegli anni, a Boa Vista, lavorammo, anche attraverso la Divisione di Etnografia e Folklore, con funzionari pubblici ed educatori per creare un movimento d’opinione a favore degli indios, delle loro culture, e dei loro diritti, per formare infermieri e insegnanti indigeni, producendo sussidi didattici nelle loro lingue».

In quegli anni Loretta Emiri scrive e pubblica testi che sono, insieme, di utilità concreta, di lavoro, e di battaglia culturale: Grammatica pedagogica della lingua yãnomamè, Abbecedario yãnomamè, Letture yãnomamè. Infine, viene chiamata a Brasilia, per organizzare il Settore di Educazione del Consiglio Indigenista Missionario (organo della chiesa brasiliana creato per appoggiare gli indios); in questa veste, viaggia per le aree indigene disseminate un po’ in tutto il Brasile, per attivare corsi di formazione per maestri indigeni, per favorire l’autonomia educativa e di trasmissione storica: «Intanto – sorride compiaciuta – nella mia casa vuota di Boa Vista si svolgevano riunioni del PT». Su quest’ultimo, Loretta non può nascondere un po’ d’amarezza: «Sì, c’è un attacco strumentalmente enfatizzato contro Lula, ma è vero anche che le aspettative riposte nel Partito dei Lavoratori sono state deluse». L’ultima cosa che Loretta ha contribuito a realizzare, nel Roraima, è l’istituzione del Magistero Indigeno, la prima scuola di formazione specifica, differenziata e pubblica per maestri indigeni del Brasile.

Il suo impegno, naturalmente, continua da Fermo e dall’Italia, attraverso racconti, poesie, e attraverso un sito e tre blog. Ha ceduto al Museo Civico Archeologico Etnologico di Modena una collezione di cultura materiale Yanomami; uno degli impegni che prendiamo, mentre ci avviamo tra i vicoli del centro storico, è di organizzare qualcosa per la prossima edizione del Premio Volponi; con tanti dei suoi e nostri amici e compagni stiamo lavorando perché, dopo l’omicidio di Emmanuel, si ricostruisca un tessuto di cultura e conoscenza del mondo e delle sue pluralità; non sarebbe male, per qualche giorno a Fermo parlare yãnomamè.