Ha abbandonato la pittura per le immagini in movimento, Yang Fudong, ed è diventato presto uno degli artisti cinesi più conosciuti all’estero per i suoi film installati e le sue fotografie. Nonostante questo, il suo è un inglese basic e così, quando lo incontriamo, il dialogo, tra cinese, inglese e qualche parola di italiano, non è proprio agevole. Ma la disponibilità di Fudong, anche grazie a un antico rapporto di amicizia di uno dei due scriventi, è illimitata e anche la cortesia di chi ci ospita: ShanghArt, una delle gallerie più esclusive di Shanghai, ubicata sulla Longteng Avenue che, per diversi chilometri, taglia in due l’area di musei e prestigiose gallerie d’arte, mentre dalla parte opposta la nostra vista è deliziata dal fiume Huangpu e dallo skyline dell’area dell’Expo 2010 che si estende a perdita d’occhio oltre il fiume. La giornata è calda e tersa, intorno a noi aiuole ben curate e file infinite di alberi piantati da poco, tra skaters e famiglie che passeggiano allegramente o fanno picnic con teli e colorate tende da campeggio. Da un edificio squadrato e bianco, esce in fretta e ci accoglie – con una mascherina anti-smog sul volto – una delle collaboratrici di ShanghArt, che ci aiuterà nella conversazione.

Prima però ci fa accomodare nella saletta della galleria per visionare alcuni lavori di Fudong: il mediometraggio Moving Mountains del 2016, seguito da una serie di recenti installazioni intitolate New Women (esposte a Milano a Palazzo Dugnani nell’ambito della mostra Ipervisualità fino al 4 maggio) e dal making of di un film in progress, che Fudong non sa ancora quando finirà. La particolarità di questo Dawn Breaking è che le riprese si sono svolte nel Long Museum di Shanghai, con il pubblico che, quotidianamente, poteva assistere all’allestimento scenografico e alla lavorazione in tempo reale, vedendo a fine giornata il girato su uno schermo. Insomma l’artista – per la prima volta al mondo, probabilmente – ha trasformato un museo di arte contemporanea in teatro di posa, mutuando in opera il processo creativo stesso, che ha così assunto forme molteplici: installazione, performance, fotografia e video.

Se questo film nella sua forma conclusiva avrà, forse, la struttura di un film narrativo, Fudong ci ha da sempre abituati a un immaginario che, pur utilizzando personaggi, scenografie sontuose ricostruite in teatro, ambientazioni d’epoca (la Cina degli anni ’20-’30), si basa su atmosfere sospese, suggestioni diegetiche, elementi surreali, situazioni decadenti, rimandi al mito o all’epoca del cinema classico. Le sue opere, monocanale o multi-channel che siano, girate rigorosamente in bianco e nero e fino a qualche tempo fa in 35mm, se dal punto di vista cinematografico possono essere lette come trailer di film che non vedremo mai, dalla prospettiva delle arti visive sono progetti compositi, concepiti per una fruizione museale e spesso collegati a serie fotografiche realizzate sia durante la lavorazione sia su un set appositamente allestito. Anche per i suoi scatti privilegia il b/w ma da qualche tempo ha iniziato a sperimentare anche il colore con una deriva vagamente pop ma sempre assai formale, rispetto al mood più classico del suo universo.

Molte sono le opere filmiche (poi trasferite in video) che hanno segnato il suo percorso: dalle 5 parti di Seven Intellectuals in a Bamboo Forest (frutto di tre anni di lavoro e presentato in anteprima nel 2006 alla Biennale di Venezia in cinque box separati allestiti all’Arsenale) al cortometraggio First Spring, finanziato da Prada, da Fifth Night a The Revival of the Snake. Lo stile dei suoi film nell’arco di vent’anni non è cambiato: accuratezza nella costruzione delle immagini; raffinatezza fino a sfociare nel glamour; attenzione quasi ossessiva rivolta a corpi – maschili, ma soprattutto femminili – alla ricerca di una bellezza ideale e di una fotogenia da esaltare; lentezza nelle azioni compiute dai suoi personaggi dalla vocazione contemplativa i quali poi invariabilmente si mettono in posa in primo piano; ricerca di una dimensione intrisa di teatralità e ritualità; scarsità di dialoghi e in alcuni casi – come nelle installazioni New Women – totale assenza di sonoro, sia per sottolineare meglio il rapporto con il cinema delle origini, sia, forse, per lasciare emergere ancor di più la sensualità dei corpi nudi femminili senza alcun elemento che possa distrarre l’occhio dello spettatore.

Come mai hai deciso di passare oltre vent’anni fa dalla pittura alle immagini in movimento?

Ai tempi dell’università, negli anni ’90, si erano andate affermando spontaneamente varie forme di arte, come per esempio, la performance, le installazioni, la scultura, i video. Fu effettivamente un periodo di estrema libertà e creatività per il mondo dell’arte contemporanea in Cina. Ebbene, proprio quell’ambiente ispirò molto il mio personale percorso artistico. E il motto italiano “Tutte le strade portano a Roma” esprime bene quell’idea. Sia la pittura che il film per me andavano nella stessa direzione: ritengo quindi che girare film rappresenti il modo più congeniale per quel che voglio esprimere e che desidero ottenere.

Nei tuoi film e nelle tue video installazioni adoperi molto poco i dialoghi. Lo fai per rendere più fluida la comunicazione e arrivare a più persone possibili senza bisogno di traduzione oppure perché l’immagine deve essere abbastanza potente di per sé, senza aiuto di parole?

Certo, la mancanza di dialogo è la scelta migliore per avere una forza intrinseca e potentemente sottile. Noi cinesi diciamo: l’assenza di suono è il miglior suono, e può essere più espressivo del dialogo, con maggiore enfasi e profondità. Attingendo dai miei studi come pittore e fotografo, più che una narrazione definita, voglio regalare sequenze di movimenti lenti, sogni di tavole viventi, sentimenti e impressioni maggiormente evocativi; magari tramite una serie di immagini in movimento mute, fatte di varie sezioni, in bianco e nero, con un cast di attori belli e scene surreali.

A proposito di “attori belli”, un altro elemento che contraddistingue ogni tua immagine è la bellezza: sia dei soggetti ritratti, sia dell’immagine stessa, sempre accurata, senza sbavature. Cosa rappresenta per te la bellezza? E’ evidente in New Women, dove le immagini sono associate all’ideale classico della Grecia antica, semplicemente attraverso l’elemento delle colonne.

Si, in New Women la bellezza è inserita in contesti differenti, come l’antica Grecia ma anche la spiaggia. Noi guardiamo i film, la bellezza che essi contengono, riconoscendovi quel che costituisce il nostro contesto culturale. Credo che si formino interpretazioni peculiari del concetto di bellezza, del come noi la vediamo in relazione alla specifica realtà circostante. Cultura, personalità, studi, background ci conducono a considerazioni e mete non uniformi. Proiettare un lavoro in modalità multicanale o schermo singolo produce sentimenti disuguali e un’estetica sempre sui generis.

In questa serie di installazioni l’assenza totale del suono aggiunge maggiore sensualità ai corpi delle attrici.

Ho voluto rendere omaggio ad un film muto del 1934 il cui titolo era appunto New Women, e alla sua protagonista, l’attrice Rang Lingyu [la Greta Garbo cinese, nda], morta suicida giovanissima.

Moving Mountains ricorda invece il cinema classico giapponese di Ozu o Mizoguchi.

Forse in parte ci sono riferimenti al Kurosawa de I 7 samurai, ma io mi ispiro per cultura e linguaggio ai film cinesi degli anni ’20 e ’30 che mi hanno sempre molto coinvolto emotivamente.

L’uso del numero 7 non è casuale, giusto?

Innanzitutto, nel momento in cui terminavo Moving Mountain nel 2016, erano trascorsi esattamente 10 anni dalla fine delle riprese di Seven Intellectuals (2007), cosicché ho tributato un omaggio a quel film. E devo ammettere che un’altra dedica l’ho rivolta al famoso artista Xu Beihong, primo presidente dell’Accademia di Belle Arti di Pechino, dove mi sono formato, che aveva studiato a Parigi e che produsse un’iconica tela di grandi dimensioni intitolata appunto Yugong Yishan [Yugong sposta le montagne].

I personaggi dei tuoi film sembrano miserabili alle prese con gli elementi naturali e con la necessità di dover lottare in continuazione tra il bene e il male oppure figure sofisticate ma perse dentro ambientazioni candide ed asettiche.

Osservo la vita delle persone ordinarie e non credo che alcuni caratteri siano miserabili. Riporto non solo cosa la gente e i giovani sentono nei confronti della propria esistenza ma anche il loro desiderio di miglioramento spirituale. La rappresentazione di intellettuali rimanda ai letterati della Cina classica: artisti e persone colte che scappavano dagli affari del mondo e quindi nei film e nelle foto trovate il loro portamento impassibile, il distacco da ogni desiderio e da qualsivoglia suggestione urbana. In altre parole, anch’io con la mente mi allontano dalla urbanità mirando ad enfatizzare un senso di isolamento e perdita della società contemporanea. Lo si nota nelle comunità sparpagliate e disperse, nel dissolvimento della vita rurale dei villaggi e nella costante lotta per la sopravvivenza.

Inserisci spesso animali che, con le loro reazioni naturali e imprevedibili, aggiungono un momento di imprevedibilità ma rappresentano anche l’elemento irrazionale degli uomini, una sorta di libertà da schemi e discorsi premeditati.

E’ vero, gli animali improvvisano e sono imprevedibili, soprattutto sul set. Ma hanno un loro proprio spirito. A me piacciono molto i gatti, ma purtroppo sono difficili da riprendere.

In generale non adotti mai una narrazione precisa, ma solo spunti, suggestioni, frammenti di possibili narrazioni intrise di atmosfere surreali. E’ una scelta dettata anche per lasciare più spazio allo spettatore che può interpretare come vuole il tuo immaginario?

La mia opera riflette ideali e ansie della generazione nata dopo la Rivoluzione Culturale alle prese con una società in continuo e frenetico cambiamento. E’ l’espressione di una condizione psicologica derivante dal materialismo e dalla vita dell’individuo nelle grandi città a seguito delle riforme economiche. Amo riprendere lunghe sequenze sospese, ricreando atmosfere atemporali, sognanti, dalla narrativa spezzettata e uno storyline multiplo. In Moving Mountain, per fare un esempio, gli attori paiono di tanto in tanto fermarsi in posa davanti all’obiettivo come per farsi fotografare, ma per me devono semplicemente restare in piedi e respirare: questo mi basta per girare. Rifiuto la logica tradizionale della struttura narrativa lineare, mentre tento invece di creare un mondo parallelo, illusorio, lontano dalla vita reale, usando prospettive culturali multiple, l’illusione complessa di spazio e tempo, con il risultato di ottenere uno stile forse più poetico.

Prevedi prima o poi di girare un lungometraggio a soggetto?

Nel 2016 ho intrapreso un nuovo lavoro in bianco e nero ambientato nella regione da cui provengo ma non è ancora terminato. Fragrant River sarà un lungometraggio narrativo di circa 2-3 ore, senza dialoghi ma con il suono. Comunque per me anche un film non narrativo è un in qualche modo un film “a soggetto”.

Ci puoi parlare della tua ultima operazione, Dawn Breaking? Ci sembra un esperimento molto originale.

E’ un progetto che era in gestazione da circa tre anni e che sono riuscito a realizzare solo nel 2018, il primo di una serie di episodi che porterò avanti con tenacia. Quando il curatore Wang Wei mi ha suggerito di utilizzare gli spazi del Long Museum, non lontano da dove ci troviamo adesso, per girare un mio film, ho avuto l’idea di attuare una modalità davvero innovativa. Per 36 giorni di fila ci siamo appropriati del museo creando una mostra on-going: ogni giorno filmavamo in ambienti che ricostruivano il periodo della Dinastia Song (960-1279 d.C.) e a sera il girato veniva proiettato su un grande schermo monocanale a disposizione del pubblico, invitato ad entrare e a partecipare. Non so ancora quando sarà pronto (forse l’anno prossimo) e probabilmente verrà presentato sia sotto forma di video installazione multicanale sia come film monocanale. Mi interessa infatti che venga visto da una audience il più vasta possibile, all’interno di film festival e nel contesto di una mostra itinerante.

Nelle immagini che abbiamo visto spicca come elemento scenografico una pagoda. Ci spieghi qual è la sua funzione, il suo significato?

E’ una struttura dalle dimensioni imponenti, mostrata in due sezioni, che rappresentano diversi aspetti della società dell’epoca: l’autorità da una parte, la vita pubblica e il dramma sociale dall’altra. Dapprima la pagoda è nuova e piena di fiori (primavera), poi decadente e rinsecchita (autunno). Insomma ci mostra sia il ciclo della vita sociale, sia le quattro stagioni coi loro scenari peculiari. A quell’epoca, la Dinastia Song era all’avanguardia nel mondo, ricca e prosperosa, garantiva grande libertà di espressione artistica ed enormi risultati in campo tecnologico. Poi, subentrò la minaccia territoriale delle tribù dal Nord della Cina, cui fece seguito un lento decadimento generale. E’ una metafora di quel periodo storico ma anche dei tempi che stiamo vivendo.

Di molti lavori realizzi anche scatti fotografici, ma non sono still tratti dai film bensì immagini realizzate sul set, dunque per te c’è uno scarto tra i due media?

Predispongo il set appositamente per fare fotografie oppure cerco sempre di scattare istantanee durante le riprese di un film. Ritengo che lo spettatore possa farsi un’idea del film anche se non ha la possibilità di vederlo: un film nel film, un film fatto da singole immagini. Inoltre, le due azioni mi servono sia per raggiungere un pubblico maggiore sia per un fattore puramente commerciale.

Hai sempre privilegiato il bianco e nero ma in alcune foto e installazioni hai cominciato a usare il colore. In che modo? Utilizzandolo con un significato simbolico?

Beh, dipende dall’intuizione personale, dalla struttura, dalla necessità del film che intendo girare. Adoro il bianco e nero e non l’ho mai abbandonato, fin dal mio primo lavoro girato nel 1997 e proiettato nel 2004 al Torino Film Festival: Extranged Paradise.

Esiste una relazione tra la pittura tradizionale sugli scroll e la sequenza cinematografica?

Ho studiato pittura ad olio e ovviamente il mio percorso artistico ne è rimasto totalmente influenzato.

Concepisci ogni lavoro fin dall’inizio come un film o una videoinstallazione o lo decidi successivamente?

Alcuni lavori, come ad esempio Moving mountain, nascono già in fase di concepimento come single channel, mentre riguardo a New Women 1 l’ho sempre pensato come videoinstallazione, anche se ho in mente di trarne un film di circa dieci minuti. Dawn breaking, invece, è strutturato per contemplare entrambe le forme di fruizione. In futuro credo che sceglierò la modalità migliore per presentare le mie immagini in movimento man mano che il progetto prende corpo.

Puoi parlarci di come finanzi le tue opere e del ruolo degli sponsor?

I miei lavori vengono prodotti da vari interlocutori a seconda del film e dell’idea di realizzazione: gallerie, società private, fondazioni. Prendiamo Seven Intellectuals, l’opera è stata finanziata da Marian Goodman di New York, ShanghArt, la Chicago Renaissance Society, mentre New Women 2 da gallerie e centri di fotografia australiani. Ma l’esperienza che ho avuto con Rolls Royce, Prada e altri grandi brand mi ha impressionato molto positivamente poiché mi hanno concesso totale libertà di movimento e di espressione, senza alcun intervento da parte loro. L’artista viene messo nella condizione di sviluppare nuove e differenti strade creative.

In che modo vengono decise le edizioni dei tuoi lavori e su quale supporto tecnologico le vendi a musei e collezionisti?

Per ogni lavoro – sia filmico, fotografico, installativo – viene stabilito l’aspetto commerciale: vale a dire numero di copie da realizzare, ecc. Ma di questa problematica forse è meglio chiedere al gallerista per i dettagli. Ai collezionisti io fornisco il lavoro in HD, su file o su dvd, ma occorre riflettere appunto in futuro sulla deperibilità dei supporti attualmente in circolazione.

In futuro pensi di ritornare alla pittura?

Credo di si. Appena ne avrò il tempo sicuramente mi ci dedicherò.