Nell’immaginaria enciclopedia di Borges si trova una bizzarra tassonomia animale che include «quelli che da lontano sembrano mosche». L’espressione, scelta da Luigi Ballerini e Beppe Cavatorta come titolo della loro antologia fresca di stampa, Those who from afar look like flies An Anthology of Italian Poetry from Pasolini to the Present. 1956-1975 (Toronto University Press, pp. 2116, $ 195), indica quale destino incontrino i poeti italiani osservati dall’America.
Concepire un volume di duemila pagine su vent’anni di poesia richiede, oltre a un immane lavoro, una visione precisa del secolo scorso, o forse, come dichiarano da subito i curatori, basta semplicemente un bel po’ di arroganza. Questa è infatti un’antologia dichiaratamente schierata, che ruota intorno alla nozione di «poesia di ricerca», intesa come manifestazione di percorsi poetici stilisticamente differenti ma ideologicamente compatibili, accomunati dall’ «opposizione alla dittatura dell’io grammaticale», da un orientamento critico capace di ridefinire la relazione tra poeta e lettore, e dall’attenzione alla produzione del senso attraverso la cura verso la materialità del segno linguistico.

Rivolgere lo sguardo da lontano alla ricerca poetica in una parte del secolo potrebbe, potenzialmente, aprire a importanti revisioni, indicare nuovi percorsi di lettura, e superare determinati luoghi comuni. Trentacinque delle cinquanta pagine dell’introduzione sono invece dedicate a un’analisi, a tratti impietosa, di antologie precedenti, dai Novissimi (1961) a Parola plurale (2005), inclusi volumi che coprono periodizzazioni del tutto differenti da quella proposta da Cavatorta e Ballerini, compresa arbitrariamente tra il 1956 e il 1975.

Il pregio di questo volume sta nell’avere reso accessibile al pubblico anglofono un’ampia antologia di saggi critici, alcuni dei quali fondamentali per la comprensione delle poetiche dei singoli autori. Questa meritoria e innovativa operazione – almeno rispetto alle antologie di poesia italiana finora pubblicate all’estero – non compensa però le falle del saggio introduttivo, che si concentra su una retorica aggressiva più che fornire chiavi interpretative ai testi e una prospettiva critica originale, come se vivessimo ancora nel clima degli anni sessanta. Per usare le parole che Ballerini e Cavatorta dedicano all’antologia di Manacorda, a ricordarci che da lontano si vede davvero poco, «il discorso del curatore non è concepito come una guida, ma come una geremiade che non getta alcuna luce sulla poesia che introduce».

Se i curatori si fossero preoccupati di argomentare i motivi delle scelte operate non ci si stupirebbe di assenze plateali (e peraltro dichiarate) come quella di Sereni, quando si è «invece fatto posto per Luciano Erba e Nelo Risi che condividono lo stesso clima poetico di Sereni e Bertolucci ma che da esso si sono allontanati per far fruttare in altri modi la loro eredità». Quali siano questi modi non viene spiegato. Rifarsi ai saggi antologizzati, in assenza di una sezione dedicata a Sereni (rimandata, chissà perché, al volume successivo), non dirime la questione. Lo stesso vale per certe inclusioni che paiono improbabili data la prospettiva di una poesia non governata dall’io.

Ad aprire il volume è infatti Pasolini, che non ha prodotto, almeno negli anni Cinquanta e Sessanta, una poesia conforme a quel presupposto. O ancora, se si aggiunge l’altro principio guida, che è quello di una «poesia linguisticamente motivata», l’inclusione di Raffaele Crovi lascia quanto meno interdetti.
Avere dato spazio ad autori importanti come Villa e Cacciatore non basta, infatti, a giustificare determinate assenze, e soprattutto la mancanza di una prospettiva critica, non già metodologica, originale, che allontani la sensazione del mero rimescolamento delle carte. Se questa antologia può essere considerata come l’ultima e la più grandiosa del Novecento, non è perché novissima, ma perché concepita con un pensiero interamente ancorato al secolo passato.