Dall’incipt, si direbbe che il terzo romanzo di Elizabeth Brundage, L’apparenza delle cose (traduzione di Costanza Prinetti, Bollati Boringhieri, pp. 514, euro 18.50) sia un thriller virato nel classico giallo: Catherine Cole, la protagonista, è infatti già stata assassinata. Porta il cognome del marito George, ma siamo nel 1978, e questa è la norma.
Di origini contadine, si era adattata alla scelta di abbandonare la carriera per dedicarsi al mestiere di madre e moglie, e non ne avrebbe sofferto troppo se in cambio avesse ricevuto, se non proprio la felicità, almeno la serenità immaginata. Ma un giorno il marito la ritrova con un’ascia conficcata nella testa nella casa di provincia non lontana da New York comprata appena un anno prima, per consentire a lui, giovane e ambizioso docente di storia dell’arte con natali altolocati, di insegnare in una buona università, se non proprio d’eccellenza. Dopo il delitto, la narrazione arretra, riparte da un anno prima, sembra sterzare verso il gotico.

L’assassinio di Catherine non è la prima tragedia che si compie tra quelle mura: già i proprietari della fattoria, costretti dalle ipoteche e dalle banche a dar via la casa di famiglia, si erano uccisi col gas, lasciando tre figli maschi bellissimi e forse anche l’ombra della donna a vagare per la casa maledetta. È appena un tratto di pennello, leggero e perfettamente misurato: perché poi Elizabeth Brundage cambia di nuovo registro, centra l’obiettivo sulle vite, le infelicità e le insoddisfazioni della comunità composta dalle famiglie che si sono trasferite dalla metropoli nella cittadina, senza mai amalgarsi davvero con la ruvida popolazione autoctona.

Così, il romanzo acquista una tonalità da moderna Peyton Place, e lo spettro di Ella, la moglie infelice suicidatasi col gas non per sua scelta ma per compiacere il marito, veglia dall’aldilà su matrimoni altrettanto malriusciti, su amori che non hanno saputo mantenere le promesse, su donne e mogli frustrate e incomprese.

La componente noir, spogliata ora di ogni connotato giallo, prende di nuovo il sopravvento verso la fine del libro: in modo magistrale, lasciando trasparire poco a poco, dietro la facciata piatta di una persona con appena qualche punta di eccentricità, una verità maniacale e assassina, in un crescendo di orrore e follia che regge il confronto con i raggelanti libri di Jim Thompson.
Il romanzo, tuttavia, non si configura come un attraversamento virtuosistico di generi letterari diversi. Elizabeth Brundage prende e dosa con misura ciò che le serve, inclusi i frequenti riferimenti dotti al filosofo mistico e padre dello spiritismo Emanuel Swedenborg e al grande pittore americano ottocentesco George Inness, che di Swedenborg era seguace. Poi amalgama il tutto con uno stile molto personale, che sfugge alle regole non codificate ma rigide della letteratura di genere, per comporre un quadro tragico che lei stessa, quasi di sfuggita, indica come «il disincanto del matrimonio».

Ma è chiaro che le ambizioni dell’autrice vanno molto oltre una dissertazione sulla miseria della vita coniugale nell’America del tardo Novecento. Il matrimonio è ricerca sia di felicità che di senso e il disincanto che lo avvolge rinvia a una disillusione più generale, comune a quasi tutti i moltissimi personaggi del libro: le cose non vanno mai come ce le si aspettava, e la vita si risolve spesso in una collezione di rimpianti. Il solo modo per sfuggire alla morsa della disillusione va cercato forse in quella dimensione di cui parlava Inness, ispirato da Swedenborg, quando spiegava il naturalismo solo di superficie della sua pittura, dicendo – e sono queste sue parole a avere ispirato il titolo del libro: «La bellezza dipende dal non-visto: il visibile sopra l’invisibile».