«Non ho che una lingua, e non è la mia», scriveva Derrida nel suo Il monolinguiso dell’altro. Proprio questo paradosso, che cristallizza le costruzioni fantasmatiche di categorie quali la «madrelingua» o il possesso innato di un corpus di suoni e significati che definirebbero identità stabili, si riverbera con una forte eco nell’opera di Tawada Yoko, una delle autrici contemporanee più unanimemente apprezzate in tutti i paesi in cui è stata tradotta.

Nata a Tokyo nel 1960, Tawada ha ricevuto i più importanti riconoscimenti della critica in Giappone, ma anche in Germania, sua patria d’elezione dove vive dagli anni Ottanta; arrivò in Europa con la Transiberiana, portando con sé il suo interesse per la letteratura russa e uno sguardo inusitato e ironico sulla condizione liminale dello scrittore migrante.

Sperimentalismo radicale
Da ormai trent’anni Tawada ha accumulato una vastissima produzione bilingue, andando ad occupare una posizione di primordine tra gli scrittori «exofonici» contemporanei. Pur essendo stata inclusa in maniera ormai stabile nel canone della World literature, tra le fila degli autori che scrivono «al di fuori della propria lingua madre», continua patentemente a sussistere, tuttavia, un rapporto inversamente proporzionale tra la fama ottenuta presso i critici e la diffusione dei suoi scritti in traduzione.

L’insieme delle opere di Tawada si presenta al pubblico giapponese e tedesco come eterogeneo e policromo: i suoi testi spaziano infatti dalla poesia agli scritti per il teatro, ma si concentrano soprattutto sulla fiction prendendo la forma del racconto (un genere da Tawada assai frequentato), del romanzo e della prosa poetica. Nel numero molto ridotto di queste opere tradotte in inglese e francese, il caso italiano resta il più emblematico: Memorie di un’orsa polare (tradotto dal tedesco da Alessandra Iadicicco e appena pubblicato da Guanda, pp. 285, euro 18,00) è solo il primo romanzo di Tawada a circolare nel nostro mercato editoriale, probabilmente grazie al successo che l’opera, pubblicata in Giappone nel 2011 e in Germania nel 2014, ha ottenuto negli Stati Uniti nella traduzione di Susan Bernofsky.
È innegabile che l’intrico dei diversi livelli di complessità in cui si strutturano le opere di Tawada sia alla base della riluttanza delle case editrici più commerciali ad accettare la sfida che pone la «magnifica stranezza» (così l’ha definita la scrittrice americana Ramona Ausubel) della sua scrittura. Una complessità in cui riecheggia lo straniamento tutto kafkiano al quale si sovrappone uno sperimentalismo linguistico mai pago di sé.

«Non è facile dire di che cosa scriva Tawada. Ma la lingua e la percezione sono sempre centrali, problematiche e vivide», ha scritto di lei Rivka Galchen sul New Yorker. Fra i temi più ricorrenti, quelli dell’identità disgregata di chi vive fra più culture e del corpo come entità in trasformazione modellata dalle lingue che si incontrano in territori stranieri, ma spesso sorprendentemente condivisi.
I testi di Tawada coinvolgono il lettore in percorsi che interpellano i sensi: la vista, prima di tutto, perché l’iconicità dei caratteri giapponesi è parte integrante della espressività della sua scrittura anche quando, con risultati sorprendenti, la adatta alla lingua tedesca; ma anche l’udito, sollecitato da frequenti twist intra ed inter-linguistici. «Das Interessanteste liegt im Zwischen», dice Tawada: «ciò che più interessa sta nel mezzo», ovvero tra più appartenenze geografiche, tra diverse lingue, nell’incontro tra corpi, menti e culture.

Memorie di un’orsa polare non fa eccezione: nelle trecento pagine che compongono il testo, si snoda una storia che ha inizio in Unione Sovietica nel dopoguerra, per concludersi a ovest del muro di Berlino qualche decennio dopo la sua caduta. È una sorta di parabola, raccontata dalle voci di più personaggi che ruotano attorno alle vite di tre membri di una stessa famiglia di orsi polari che non hanno mai visto il Polo e dotati – più o meno consapevolmente – di doti artistiche eccezionali.

Lo spunto viene da un fatto di cronaca: la storia dell’orso Knut, divenuto una decina d’anni fa oggetto di un’incredibile attenzione mediatica internazionale per essere sopravvissuto alla propria infanzia nonostante l’abbandono della madre nello zoo di Berlino. Il titolo italiano, calco della versione inglese Memoirs of a Polar Bear a cui si è aggiunta una specificazione di genere, non rende appieno la polifonia dei punti di vista che costruiscono l’intreccio e sostengono la linea narrativa. Se il primo capitolo è, in effetti, il racconto in prima persona delle vicende personali e artistiche della nonna di Knut, stella del circo sovietico che ha abbandonato le scene per dedicarsi alla scrittura, le successive due sezioni spostano il punto di vista su altre storie e altre voci.

La matriarca orsa è una scrittrice divenuta celebre per la sua autobiografia «Scrosci di applausi sulle mie lacrime» (ironico clin d’oeil alla narrazione dell’esperienza che sarebbe propria dell’autore migrante); diversamente da lei, la figlia Tosca non impugna una Mont Blanc né legge Heine e Kafka; piuttosto, comunica in sogno con la sua addestratrice, ed è così che troverà la sua voce e racconterà le proprie memorie.

Nella dimensione onirica, propria a molta scrittura di Tawada, i confini spaziali, temporali e personali si confondono, e non è spesso chiaro a chi appartenga la voce e la storia che si sta raccontando: un’ambiguità resa possibile dalla lingua della prima stesura originale, perché il giapponese permette ellissi sintattiche che nelle intenzioni di Tawada diventano vuoti significativi, il cui intento è mostrare come ogni elemento identitario non sia altro che una costruzione.
I titoli originali («Etüden im Schnee», Études nella neve; «Yuki no renshusei», Gli apprendisti della neve) richiamano due elementi centrali nel romanzo, che condividono lo spazio del limite in cui tutti i personaggi del libro vivono. C’è innanzi tutto l’esercizio, anzi lo sforzo per imparare ciò che l’«altro» richiede: allo scopo di trovare il proprio spazio nel mondo, l’orsa matriarca deve scrivere nella forma e nella lingua che gli viene imposta («Che cos’è la mia lingua madre? Io non ho mai parlato con mia madre!» «La madre è la madre anche se non hai mai parlato con lei»). Per seguire la sua carriera l’orsa abbandona il figlio alla nascita; il piccolo Knut è seguito dalla stampa del mondo intero finché diventa capace di interpretare in peluche nel quale lo hanno trasformato, simbolo delle lotte ecologiste.

Il secondo elemento ricorrente è quello della neve: le tre generazioni di orsi hanno imparato a convivere in luoghi lontani dal loro habitat e in simbiosi con altre specie che hanno «snaturato» il loro comportamento. Sognano e ricordano una neve che non hanno mai conosciuto, evidenziando come la memoria sia una costruzione, così come lo sono la lingua che parlano o nella quale sognano e il loro rapporto con chi li circonda. Solo nello spazio liminale e indefinito tra le specie, le lingue, l’immagine di sé e quella dell’altro, gli orsi del romanzo riescono a trovare la loro giusta dimensione. Come ognuno di noi, del resto, chioserebbe Tawada.