Ne sentirete parlare, sempre che quel vizio tutto italiano di percepire la Cina venga per un attimo meno. Anzi provate a ragionare in questo modo. Immaginate se quando fosse uscito Twitter, qualcuno avesse detto: «no, non ci interessa, è una cosa troppo americana». Con la Cina succede così: ci sono fenomeni che travalicano le frontiere della Grande Muraglia, ma da un certo tipo di informazione nazionale sono considerati «troppo cinesi», come se ormai il mondo non fosse ancora sufficientemente globalizzato, nel senso – se si può trovare – positivo del termine. Prendiamo Xiaomi, ad esempio. Lo conoscete? Qualche tempo fa nel giro di dieci secondi ha venduto 50mila smartphone on line. E nel 2013-2014 è previsto venda circa 20 milioni di telefoni.

E se lo considerate troppo cinese, segnatevi questo nome: Hugo Barra. Chi è? E’ un ex manager, di quelli con la M maiuscola di Google; si occupava dello sviluppo delle applicazioni Android. Ora è stato assunto proprio da Xiaomi («piccolo riso»), azienda cinese sempre più convinta di lanciarsi anche sul mercato internazionale. Lei Jun (4 milioni di followers su Weibo, il Twitter cinese) e fondatore di Xiaomi ha postato sul suo microblog: «Hugo Barra comincerà a lavorare con noi da ottobre e ci aiuterà a sviluppare il nostro brand nel mondo». Apple, Samsung e compagnia, sono avvisati.

Intanto, la Cina è sicuramente uno dei primi mercati al mondo per gli smartphone; solo nel 2012 Xiaomi ne ha venduto 7 milioni (con 2 miliardi di dollari di revenue). E’ una questione, per altro, visiva: in Cina non c’è luogo dove i cinesi non siano intenti a smanettare con uno smartphone. In auto, in metropolitana, nei locali: merito del wi fi presente ovunque, di contratti per internet non troppo costosi e della vita sociale che ormai scorre sull’asse smartphone – applicazioni. Il caso di Wechat, applicazione che ora è giunta anche in Italia con la pubblicità (con Messi testimonial), è un altro caso di successo clamoroso, scaricata da oltre 200 milioni di cinesi e già presente sugli smartphone di almeno 50 milioni di «stranieri».

Xiaomi è uno dei telefoni di maggior successo in questo momento, tanto da guadagnarsi l’appellativo di «Apple cinese», anche perché il suo fondatore, Lei Jun, è considerato lo «Steve Jobs d’Oriente», dato che nelle sue presentazioni utilizza lo stesso stile dell’ex leader di Apple. Ma tutte queste somiglianze sono molto riduttive, quando si deve andare a comprendere su cosa basi il suo successo Xiaomi: quello che ha schiantato la concorrenza è stato il modello di business. Si tratta di cellulari intanto molto economici, dai 150 ai 250 euro, che pur utilizzando Android sono molto simili agli Iphone e soprattutto si vendono solo on line, dove hanno sfruttato la capacità di creare una community che ha costituito un esempio di «modello di marketing» di cui si discuterà a lungo.

Xiaomi ha utilizzato il boom dell’ecommerce cinese e ha dato molto peso al parere dei fans: per il lancio del modello MI2, ad esempio, Xiaomi ha invitato oltre 1200 appassionati a proporre i loro feedback per il miglioramento del prodotto; «la maggior parte dei fans, ha raccontato Lei Jun, ha idee molto chiare su quale debba essere il loro smartphone perfetto. Ma molti di loro non possono farlo perché la costruzione di un telefono non è proprio la cosa più semplice del mondo da mettere in piedi. Così ci lasciano dei feedback sulle funzionalità che pensano dovrebbe essere incluse nel prossimo modello. E se noi, come facciamo, le incorporiamo nei nostri nuovi modelli, diventeranno loro stessi i principali diffusori del nostro brand».

Queste sono caratteristiche che fanno impazzire i cinesi, desiderosi di dire la propria, di sentirsi parte di un brand che finalmente è cinese ma sembra unire le capacità tecnologiche e di marketing occidentali, alle caratteristiche del mercato locale, sempre più elaborato e complicato. Secondo il fondatore di Xiaomi, «ci sono tre pilastri nel nostro modello di business: la partecipazione dei fan nel design del prodotto, la vendita dello smartphone alla nostra base dei fans, il contenimento dei costi di distribuzione attraverso l’innovazione del modello di business, ovvero la vendita solo ed esclusivamente on line».

Per chi cerca idee di investimento in Cina, Xiaomi rappresenta un esempio clamoroso. Come hanno riportato alcuni magazine economici, «l’impennata della valutazione di Xiaomi ha sorpreso molti nell’estate del 2010, quando l’azienda si è assicurata un investimento di 41 milioni di dollari da Morningside Ventures, Qiming Venture Partners e IDG Capital Partners. La valutazione della società allora è stata di 250 milioni di dollari. Nell’ottobre 2011 Xiaomi attratto altri tre investitori con 90 milioni di dollari, e la valutazione della società a quel tempo è diventata di 1miliardo».

Sono poi arrivati i finanziamenti di un fondo sovrano singaporeano, di un gruppo di russi e due amici di Lei. Oggi Xiaomi varrebbe 10 miliardi di dollari.
Infine, nel successo di Xiaomi, c’è tutta la capacità e inventiva del creatore del marchio, Lei Jun. Di lui, Kaifu Lee, ex Microsoft e Google Cina, considerato uno degli osservatori più importanti del mondo tecnologico cinese e a capo di un’azienda che finanzia start up cinesi, ha detto che «è un imprenditore fenomenale, sa capire come nessuna altro le esigenze degli utenti e del mercato e ha questo incredibile desiderio di creare un marchio noto nel mondo tecnologico mondiale».

Di Lei Jun si sa poco, benché ormai sia considerato una celebrità: nato a Wuhan, dove ha frequentato l’università di ingegneria, sarebbe stato folgorato da una biografia di Steve Jobs, letta nel 1987. «Sono stato fortemente influenzato da quel libro, e ho voluto creare una società di prima classe», ha detto Lei Jun, che sul parallelo tra la sua creatura e Apple, ha le idee piuttosto chiare: «i media cinesi mi dipingono spesso come lo Steve Jobs cinese? Lo prenderò come un complimento, anche perché questo tipo di confronto porta una pressione enorme. Xiaomi e Apple però sono due aziende completamente diverse. Xiaomi è basata su Internet, non facciamo la stessa cosa di Apple». Così disse l’uomo tecnologico del momento Cina, e chissà a breve, del mondo.