La giornata di ieri, sabato primo luglio 2017, ha segnato il ventennale del passaggio di Hong Kong dall’amministrazione del Regno Unito a quella – parziale – della Repubblica Popolare Cinese, secondo il principio di «un paese, due sistemi», garanzia delle prerogative democratiche care ai cittadini dell’ex colonia britannica.

Una ricorrenza dall’altissimo valore simbolico, viste le proteste (Occupy Kong Kong, Umbrella Movement…) che negli ultimi anni hanno infiammato la metropoli, a difesa del dna democratico della città e dei suoi abitanti dalle progressive ingerenze di Pechino nella gestione della cosa pubblica locale.

Per l’occasione, il presidente cinese Xi Jinping ha optato per una dimostrazione di forza decisamente irrituale, a ribadire il predominio della mainland sulle istanze indipendentiste locali.

Nella giornata di venerdì Xi è sfilato tra oltre tremila uomini e 100 mezzi dell’Esercito Popolare di Liberazione cinese presso la base aerea militare di Shek Kong, nella più grande parata militare cinese in territorio di Hong Kong dalo 1997.

Il mattino seguente, di fronte a duemila funzionari locali, Xi ha guidato la cerimonia di insediamento del nuovo «chief executive» di Hong Kong, Carrie Lam, prima donna nella storia dell’ex colonia a ricoprire la carica, assimilabile a una sorta di premiership locale.

Lam, considerata «vicina» a Pechino, nel discorso di inaugurazione ha riaffermato la volontà, già espressa in campagna elettorale, di ricucire i rapporti tra l’amministrazione della regione a statuto speciale, gli studenti e i businessmen, attenendosi all’applicazione del principio «un paese, due sistemi», alla Basic Law (l’ordinamento giuridico di Hong Kong, derivato dal quello britannico), e promuovendo «relazioni positive tra il governo centrale e la regione amministrativa speciale di Hong Kong».

Xi chiamato sul podio dopo il discorso di Carrie Lam, ha esortato la nuova amministrazione locale – che sarà in carica per cinque anni – a concentrare le proprie energie nello sviluppo, «la chiave per risolvere i problemi di Hong Kong».

Ma, soprattutto, riferendosi chiaramente alle proteste occorse negli ultimi anni, il presidente cinese ha affermato che «qualsiasi tentativo di mettere a repentaglio la sovranità e la sicurezza della Cina, sfidare il potere del governo centrale e l’autorità della Basic Law, usare Hong Kong per portare avanti attività di infiltrazioni o sabotaggio contro la mainland (la Repubblica Popolare Cinese, ndr) rappresenta un atto che sorpassa la linea rossa ed è assolutamente inammissibile».

Puntualizzazione durissima, in qualche modo attesa, dopo giorni di proteste in città organizzate dai gruppi «pro-democrazia» vicini all’Umbrella Movement (il movimenmto degli ombrelli) e ai partiti «anti-Pechino» Demosisto e League of Social Democrats, finite in scontri o con le forze dell’ordine o con gruppi locali «pro-Pechino».

Mercoledì la polizia di Hong Kong aveva arrestato almeno 25 manifestanti, tra cui il leader dell’Umbrella Movement Joshua Wong, con l’accusa di disturbo della quiete pubblica e manifestazione non autorizzata.

Iieri nel pomeriggio come da tradizione, per le vie del centro si è tenuta regolarmente la marcia pro-democrazia di Hong Kong, simbolo dell’attivismo politico cittadino, organizzata dal Civil Human Rights Front (Chrf).

Secondo Au Nok-hin del Chrf, intervistato dal South China Morning Post, quest’anno la marcia ha contato 60mila presenze: meno del previsto, ma preziose, considerando che «chi protesta oggi corre più rischi rispetto al passato».