Zheng He è un eunuco cinese, di religione musulmana che, circa 600 anni fa, venne messo a capo della flotta marittima cinese, dall’allora imperatore – della dinastia dei Ming – Zhu Di. Le sue imprese sono considerate mitiche (si dice che abbia addirittura scoperto l’Australia e la Nuova Zelanda) e rimandano ad una grandezza navale cinese che non venne mai più replicata.
In uno dei suoi tanti recenti discorsi, il presidente della Repubblica popolare cinese Xi Jinping, lo ha ricordato, dando il via al lancio del «sogno dell’Asia e del Pacifico». Si tratta di un progetto che prevede investimenti, banche internazionali, infrastrutture per rafforzare la ben nota via della Seta e collegare via mare la Cina all’Asia e ai mercati medio orientali ed europei.

Si tratta di un balzo in avanti non da poco, una sorta di uscita allo scoperto da parte di un presidente che ha ormai collezionato internamente il sufficiente potere per riproporre all’esterno il desiderio di riportare la Cina dove è sempre stata, ovvero alla guida del continente asiatico. I piani di Pechino sono complessi e articolati e includono un accordo di libero scambio in Asia e Pacifico, una Asian Infrastructure Investment Bank (Aiib) da 100 miliardi di dollari, con sede a Pechino e un «fondo per la Via della Seta» da 40 miliardi di dollari, annunciato proprio la settimana scorsa.

Secondo Xi Jinping, «la Cina potrebbe stimolare la crescita e migliorare le infrastrutture in tutta la regione per contribuire a realizzare un sogno dell’Asia e Pacifico: con l’aumento della nostra forza nazionale complessiva, ha detto, la Cina ha la capacità e la volontà di fornire un maggior numero di beni pubblici per la regione Asia-Pacifico e per il mondo intero». Per quanto riguarda la banca d’investimenti, il Financial Times – e con esso la comunità finanziaria internazionale – è apparso preoccupato.

«La Aiib e la banca dei Brics, che comprende Brasile, Russia, India, Sud Africa e Cina rappresentano la prima sfida istituzionale grave per l’ordine economico mondiale stabilito a Bretton Woods 70 anni fa, secondo Matthew Goodman, uno studioso del Centro di studi strategici e internazionali di Washington. Meno chiaro è quanto queste nuove istituzioni miglioranno la governance globale o aiuteranno davvero gli interessi dei paesi che li difendono». Domanda legittima, se per questi Paesi fosse provata l’utilità derivata dalle istituzioni economiche mondiali occidentali, che con le proprie operazioni sono riuscite a mettere al tappeto gran parte del mondo. L’occasione migliore per il lancio di questa nuova, ennesima, svolta storica è l’Asian Pacific Economic Cooperation (Apec) – il meeting dei 21 paesi dell’area – iniziato ieri a Pechino. Xi gioca in casa e non potrebbe avere terreno più favorevole.

A Pechino è arrivato anche Obama, un presidente indebolito (e definito «insipido» dalla stampa locale) dalle elezioni di metà mandato e dal nuovo ginepraio iracheno e più in generale preda di un mondo multipolare, caratterizzato dalle varie spinte di potenze regionali che ormai sfidano apertamente lo status quo, ridisegnando una geografia considerata «colonialista», come nel caso del Califfato tra Iraq e Siria o riproponendo antichi fasti, suffragati dalla nuova forza economica, come nel caso di Pechino. Il mondo è cambiato e l’Asia costituisce la cartina di tornasole economica di questo spostamento del capitale e della sua guida. «Spetta al popolo dell’Asia gestire gli affari dell’Asia, risolvere i problemi dell’Asia e difendere la sicurezza in Asia», ha detto Xi Jinping, invitando i paesi asiatici a «far avanzare il processo di sviluppo comune e l’integrazione regionale».

Mai come negli ultimi anni la Cina ha avuto un campo così vasto davanti a sé: attivare investimenti e fondi per Pechino è la soluzione migliore per rispondere ai dubbi che la debolezza americana sta facendo serpeggiare tra i suoi alleati nella regione, in bilico tra la resistenza ad un’alleanza anti cinese o l’abbandono ai – tanti – soldi che Pechino mette sul piatto. Washington è riuscita, per ora, a bloccare l’idea di un libero scambio asiatico a matrice cinese, per spingere sul proprio accordo, che esclude la Cina, ma la centralità cinese nella regione sembra ormai inarrestabile e non nasce certo in questi giorni. A Washington c’è già chi parla di un nuovo piano Marshall asiatico, mentre alcuni media occidentali – il Wall Street Journal ad esempio – ricordano i fasti imperiali cinesi e il sistema dei tributi: qualcosa che forse appare più vicino alle intenzioni di Pechino.

Xi Jinping ha infatti proposto la cosiddetta «Cintura economica della Via della Seta» già settimane fa, durante un viaggio in Asia centrale. Si tratta di un corridoio che collega l’Oceano Pacifico al Mar Baltico e che unisce Asia orientale, Asia meridionale e il Medio Oriente per servire un mercato combinato di circa tre miliardi di persone. In Kazhakistan ha stretto un accordo per 30 miliardi di dollari per petrolio e gas e ha fornito un prestito di 3 miliardi di dollari per infrastrutture in Kirghizistan. Una manovra già vista in Africa: prestiti per infrastrutture e servizi, in cambio di risorse.

«Durante il recente viaggio in Indonesia – ha scritto il Wall Street Journal – ha proposto un altro pilastro, un corridoio commerciale marittimo che ha chiamato la Via della Seta Marittima del 21° secolo. Esso comporta la costruzione o l’espansione di porti e aree industriali in tutto il Sud-Est asiatico e in luoghi come lo Sri Lanka, il Kenya e la Grecia, con l’obiettivo di incrementare il commercio bilaterale con il sud-est asiatico a mille miliardi di dollari entro il 2020, più del doppio del livello dello scorso anno».

Il Fondo fornirà sostegno finanziario ai paesi asiatici che mirano a migliorare la connettività, ha detto Xi. «Seduta su una grande riserva di valuta estera, la Cina ha la capacità e dovrebbe assumersi maggiori responsabilità per lo sviluppo comune della regione», ha specificato al Global Times Zhang Baotong, un ricercatore dell’università dello Shaanxi, la provincia nord-occidentale cinese, già punto di partenza dell’antica Via della Seta.

La stampa locale non ha dubbi sul cambiamento dell’equilibrio asiatico, rimarcando il consueto carattere «pacifico» dell’ascesa cinese: «Gli Usa vogliono sempre guidare il mondo, ma non ne hanno la forza. Non c’è stata alcuna egemonia globale in grado di spazzare via la diversità nel mondo e gli Stati Uniti non fanno eccezione. Se uno dei due paesi tra Cina e Stati Uniti non tiene conto degli interessi degli altri per cercare il proprio interesse, non ci sarà alcun successo nella regione. Quella di una posizione dominante è forse un’idea obsoleta e la lotta per il dominio non beneficerà nessuno dei due paesi».