È una risoluzione sulla storia, ma si è scordata il passato. O almeno il passato che vuole dimenticare. Il sesto plenum del partito comunista cinese si è concluso con l’approvazione dell’atteso documento che eleva il presidente Xi Jinping allo status di Mao Zedong e Deng Xiaoping, ipotecandone di fatto il terzo mandato che verrà ufficializzato al ventesimo congresso che si svolgerà nella seconda metà del 2022.

Rispetto alle precedenti formulazioni, anziché imprimere una visione critica del passato, la leadership guidata da Xi non solo della storia esalta unicamente gli aspetti positivi – glissando sugli orrori della Rivoluzione culturale – ma ha anche l’ambizione di incarnarne la fase di massima fioritura: la Cina si è alzata in piedi con Mao, si è arricchita con Deng ma è sotto la guida di Xi che diventerà una grande potenza.

Un percorso che è presentato come continuo, logico, inevitabile. Naturale che gli snodi più controversi siano accuratamente evitati. Se nella risoluzione denghiana l’operato di Mao era stato valutato per il 70% positivo e per il 30% negativo, in quella di Xi l’unica percentuale possibile è quella piena.

Anche perché viene offerta «una periodizzazione della storia del partito in epoche che hanno affrontato ciascuna la propria missione primaria», scrive Joseph Torigian su Twitter. È dunque corretto che dalla rivoluzione di Mao si sia passati alle aperture di Deng fino a quello che Jean-Pierre Cabestan ha definito «melting post ideologico» di Xi.

La garanzia di stabilità, ricchezza e forza arriva dal marxismo con caratteristiche cinesi. «Il partito comunista e il popolo cinese dichiarano solennemente al mondo con lotta coraggiosa e tenace che il popolo cinese non è solo bravo a distruggere il vecchio mondo, ma anche capace di costruire un mondo nuovo. Solo il socialismo può salvare la Cina e solo il socialismo può portare sviluppo in Cina». Tra le righe viene riaffermata l’efficacia del sistema cinese che coniuga l’eredità politica marxista-leninista alle aperture economiche.

Un punto ripreso in una recente analisi del Global Times, che identificava la chiave del successo cinese nella capacità di non cedere al fascino dell’occidentalizzazione, al contrario dell’Unione Sovietica negli anni ’80. «L’intero partito deve aderire al materialismo storico e alla corretta visione della storia del partito per imparare dai secoli di lotta e dal successo del passato come continuare ad avere successo in futuro, in modo da portare avanti più fermamente e consapevolmente la nostra missione originale. I tempi sono i migliori per sostenere e sviluppare il socialismo con caratteristiche cinesi».

Chiaro riferimento alla crisi epidemica da cui la Cina è uscita (per ora) relativamente indenne mentre le potenze occidentali, Stati uniti in primis, attraversano una crisi identitaria tra difficoltà economiche e derive populiste.

Ma il documento sembra soprattutto legittimare nero su bianco l’eredità politica di Xi facendo esplicito riferimento ad alcune delle iniziative da lui introdotte: la «prosperità comune», concetto che introduce la necessità di ripartire più equamente le ricchezze tra la popolazione e appianare le diseguaglianze regionali, viene affiancata al «nuovo concetto di sviluppo» che presuppone la necessità di perseguire «autosufficienza scientifica e tecnologica» e un paradigma di sviluppo sostenibile e condivisibile con il resto del mondo.

Le scelte lessicali sembrano porre sullo stesso piano Mao e Xi. Quando si menzionano i pilastri da tenere al centro del Partito si citano il «pensiero» di Mao, la «teoria» di Deng e di nuovo il «pensiero» di Xi, mentre Jiang Zemin e Hu Jintao restano più sullo sfondo.

Il comunicato afferma che con Xi Hong Kong è passata dal «caos alla governance», aggiungendo che Pechino è riuscita a «mantenere l’iniziativa e la capacità di guidare le relazioni tra le due sponde dello stretto» di Taiwan.

Come per le risoluzioni di Mao e Deng, l’ultima revisione della storia ha lo scopo di cementare la figura del leader in carica, stavolta però non si vedono all’orizzonte possibili sfidanti. Nessuno degli attuali membri del Comitato permanente del Politburo ha l’età o l’esperienza per poter ereditare la leadership in tempi brevi.