Solo i migliori muoiono giovani, tutto il male sembra vivere per sempre», canta Bruce Dickinson con gli Iron Maiden. E su Aionios, un mondo che è eredità di altri mondi, funziona davvero così perché in queste lande di colossi collassati e dimensioni che si sono schiantate una sull’altra i giovani sono sottoposti alla peggiore forma di schiavitù da un sistema terribile, ancestrale e misterioso, intere generazioni obbligate ad essere soldati, sottomesse alla guerra. I ragazzi di Aionios non conoscono l’infanzia e la maturità, sono la merce di un’economia e un misticismo militari, essi sono prodotti già come adolescenti da fabbriche di umanità per essere addestrati e combattere un conflitto contro dei loro simili, una guerra della quale essi neanche comprendono le ragioni. Ma il ciclo vitale di questi soldati dura solo dieci anni, se essi sopravvivranno alla battaglie incessanti, poi saranno ritirati dal mercato, o meglio «tramandati» con un rituale che li dissolve nel nulla al gran suono di flauti e al cospetto di un’ineffabile regina.

È questa la tragica premessa di Xenoblade Chronicles 3 per Nintendo Switch, nuova deriva di Tetsuya Takahashi con Monolith Soft nel suo inesauribile xeno-immaginario, luogo che egli continua incessante ad esplorare edificando connessioni ermetiche e non dichiarate tra una l’una e l’altra saga, fino dai tempi di Xenogears nel 1998.

Dopo Xenogears venne la trilogia di Xenosaga, con i suoi titoli ispirati ai testi di Friedrich Nietzsche (La Volontà di Potenza, Al di là del Bene e del Male, Così Parlò Zarathustra) e infine i tre Xenoblade Chronicles più uno «spin-off» più orientato verso una dimensione «online» ma assai affascinante. È dunque evidente, e non solo per il prefisso «xeno», che quello di Takahashi, con il supporto creativo della moglie Kaori Tanaka detta Soraya Saga, sia un universo tematico e narrativo unico, tuttavia le saghe sono disgiunte e i loro collegamenti occulti, solo accennati, per questioni di diritti inerenti alle proprietà dei titoli.

Ecco tuttavia che sei ragazzi, nemici giurati, compiono l’atto più libero, nobile e ribelle possibile per un soldato-schiavo: la diserzione. Il sestetto si allea dimentico della nebulosa, imposta rivalità e intraprende un lungo e pericoloso viaggio verso la verità e la distruzione del sistema che continua ad opprimere le generazioni da secoli. E questa meravigliosa alleanza tra nemici si spinge oltre, nella fusione dei corpi, perché le tre coppie di novelli amici si fonderanno nelle forme possenti e meravigliose di pseudo-robottoni (ma non lo sono) detti «uroboros», nome che deriva dall’antica figura simbolica del serpente che si morde la coda. L’opera di Takahashi, dalle sue indimenticate origini, è sempre meravigliosamente grave di riferimenti dotti alle religioni, alla psicanalisi, alle filosofie; la sua è una fantascienza allegorica, ricca di dilemmi etici, riflessiva, personale anche quando citazionista, davvero preziosa nelle sue indagini critiche e politiche, tuttavia mai disgiunta dall’epica, sia questa classica o pop-giapponese.

Si tratta di un gioco di ruolo non comune nelle dinamiche, che si fonda sulle intuizioni ludiche dei due precedenti episodi migliorandole ancora, proponendo così combattimenti in tempo reale che risultano caotici in maniera illusoria e sono invece strategici e motori di pensieri tattici complessi, spettacolari anche quando c’è più confusione. Il cuore ludico ed emozionale del gioco non è quello marziale, sebbene sia inevitabile sostenere centinaia di battaglie, ma l’esplorazione di spazi immensi e dalla bellezza travolgente, disegnati per susseguirsi in un crescendo di meraviglia e sgomento, fino alla fine di un viaggio che può durare oltre le cento ore continuando a sorprendere con colpi di scena e climax devastanti. Risultano ancora amplificate, in un’appassionante prolissità, le scene di intermezzo non interattive, segmenti di cinema puro diretti con virtuosismo e partecipazione, sceneggiati per esprimere pathos e alimentare oltremodo la partecipazione di chi gioca agli eventi e all’edificazione dell’epopea. Contribuisce all’evoluzione di questo dramma estesissimo la titanica partitura di Yasunori Mitsuda, che ha cooperato con altri musicisti, per comporre un melodramma sonoro di dimensioni super-wagneriane se non nella forma e nello stile, almeno nell’idea di una musica che dia voce a tutto, dalle pietre ai più profondi abissi dell’animo con suoni talvolta meccanici, sinfonici, elettronici o cameristici, possenti o intimisti. Inoltre nel gioco la musica eseguita al flauto da due dei protagonisti ha una funzione funeraria, permette ai corpi dei soldati defunti di affrancarsi dalla carne, di trapassare. Ma c’è sempre qualcosa di inquietante in questo rituale.

Xenoblade Chronicles 3 è l’opera più compiuta di Takahashi, perché possiede qualcosa di definitivo e non perché significhi di più di altri suoi capolavori come Xenogears, il primo Xenosaga o Chronicles 2, risulta insieme la somma del pensiero dell’autore e il sorgere di un anelito verso qualcos’altro, un grandioso confine tra un mondo dell’immaginazione e il prossimo.

Da giocare in tempi di guerre per rafforzare e ribadire l’idea della loro scelleratezza, Xenoblade Chronicles 3 è un videogame del pensiero che restando videogame sconfina in altri spazi delle arti dell’espressione con la forza dei suoi contenuti e della sua estetica, il racconto di un viaggio spossante quanto esaltante nel restituire l’idea di un’impresa contro un fato che non esiste, perché «architettato» ai fini di una bieca idea di schiavismo. La cronaca della crescente amicizia tra antichi nemici in nome di ideali alti e umanisti, per amore e per la libertà, possiede la potenza idealistica e filosofica di quando il (purtroppo) tramontato Dan Simmons reinventò nei suoi romanzi la guerra di Troia e la sovvertì, facendo alleare i troiani con i greci per combattere e sconfiggere gli unici, veri nemici: gli dei.