L’anno scorso la rassegna estiva di Trastevere gli ha dedicato una retrospettiva integrale, mentre ieri alla Festa del Cinema di Roma la fila per partecipare all’incontro con Xavier Dolan già cominciava ad allungarsi fuori dalla sala Petrassi dell’Auditorium molte ore prima dell’ inizio.
Giovanissimo (classe 1989) eppure nei suoi film «ossessionato» dalla nostalgia il regista quebecois è ormai una stella anche in Italia – alla cerimonia di premiazione di Cannes dell’anno scorso i selfie con lui sul red carpet erano tra i più ricercati – dove il suo primo film a venire proiettato nelle sale è stato Mommy (il quinto) con cui nel 2014 aveva vinto il suo primo premio – della giuria – proprio al Festival di Cannes.

Ed è stato sempre il festival francese a lanciare la sua carriera da regista quasi dieci anni fa, nel 2009, quando Dolan appena diciannovenne presentò alla Quinzaine des Realisateurs J’ai tué ma mère, racconto semiautobiografico che inaugura la vocazione al melodramma, di cui è regista e anche protagonista e che trae ispirazione dal suo rapporto burrascoso e di profondo amore con la mamma – interpretata nel film da Anne Dorval che anni dopo vestirà di nuovo per lui i panni della madre di un adolescente problematico in Mommy.

«Per fare il primo film ho investito tutti i miei soldi», ha detto Dolan al pubblico di Roma, dove è arrivato con un nuovo look biondo platino. «J’ai tué ma mère nasceva dall’esigenza di raccontare, ma anche dalla necessità di ’uccidere mia madre’, almeno al cinema». La sceneggiatura è stata scritta in un periodo in cui non trovava lavoro come attore, spiega ancora Dolan che ha iniziato la sua carriera nel cinema molto prima del debutto a Cannes, come «baby actor» (il primo ruolo a cinque anni nel film Miséricorde di Jean Beaudin).

The Life and Death of John F. Donovan, il suo prossimo film ancora inedito, uscirà in Italia nel gennaio 2018 e segna il primo lavoro del regista in lingua inglese, e il secondo con un cast di «superstar»: Susan Sarandon, Jessica Chastain, Natalie Portman, Kathy Bates, Kit Harington e molti altri, nella storia di un giovane attore che ricorda la sua corrispondenza, e l’impatto che questa ha avuto sulla sua vita, con una star televisiva morta dieci anni prima.

In una delle poche occasioni in cui ha parlato del film Dolan, permaloso quanto talentuoso, scontava ancora la delusione per l’accoglienza fredda della critica americana al suo ultimo film, È solo la fine del mondo (2016), che pure gli era appena valso il secondo riconoscimento a Cannes, il Gran Premio della Giuria. «Avremmo dovuto finire di girare in novembre, ma quando sono tornato da Cannes ho pensato che non ero in grado di farcela, fisicamente né emotivamente», aveva detto il regista canadese che dei suoi film è anche sceneggiatore, montatore e spesso costumista e attore.

«Preferisco recitare piuttosto che dirigere – ha però rivelato Dolan durante l’incontro romano – anche se quando giro è come se continuassi a recitare in modo diverso. Girare ti fa imparare tante cose dagli attori, vedi come si trasformano, cambiano. Ma recitare mi manca».
Ancora oggi la domanda che Dolan che si sente rivolgere più spesso riguarda la sua età e come questa influenzi le storie complesse che ha portato sullo schermo: «Non c’è un’età giusta per raccontare delle storie – è la sua risposta – non mi metto limiti, non mi sento giovane né vecchio, voglio solo raccontare storie che mi perseguitano».