È passato poco più di un anno da quando si è registrato il primo caso di Covid-19 nella provincia cinese dello Hubei. Dopo 12 mesi, la Cina si presenta vincitrice nella battaglia contro il coronavirus, ma nuove rivelazioni rischiano di adombrarne gli sforzi.

La Cnn è venuta in possesso di un rapporto classificato come «documento interno da mantenere riservato», secondo cui la Cina non avrebbe riportato i dati reali sull’epidemia, almeno nella prima fase della diffusione del virus nello Hubei.

Si tratta dell’inchiesta «Wuhan Files», un documento di 117 pagine ottenuto dall’emittente tv grazie a una fonte interna al Centro provinciale dell’Hubei per il controllo e la prevenzione delle malattie, che mette nero su bianco quanto caotica sia stata la gestione dell’epidemia da parte del Pcc.

Il rapporto, verificato da sei esperti indipendenti, ma non confermato dalla Commissione sanitaria nazionale cinese e dalla Commissione sanitaria dell’Hubei, fa luce su due date rilevanti. Il 10 febbraio 2020 le autorità cinesi hanno segnalato 2478 nuovi casi di coronavirus a livello nazionale, ma il leak ottenuto dalla Cnn mostra che solamente nello Hubei si erano registrati 5918 nuovi casi, suddivisi in 2345 pazienti positivi al tampone, 1772 casi diagnosticati attraverso Tac toracica e 1769 soggetti con sintomi sospetti per Covid-19.

Qualche giorno prima, il 20 gennaio, il presidente cinese Xi Jinping, in un discorso trasmesso in tv, aveva rassicurato il Paese sulla gestione dell’emergenza sanitaria, confermando di aver dato istruzioni all’apparato del Pcc per la lotta all’epidemia già il 7 gennaio.

Ma a smentire il Partito è stato un documento ottenuto lo scorso aprile dall’Ap, secondo cui Pechino ha atteso solo il 20 gennaio prima prendere provvedimenti per fronteggiare la diffusione del virus, dopo aver ricevuto una documentazione segreta interna il 14 gennaio. In quei sei giorni nulla di concreto si è fatto, mentre i cinesi si spostavano da una parte all’altra del Paese per le celebrazioni del capodanno lunare.

Un altro elemento evidenziato dai «Wuhan Files» è la lentezza con cui sono stati diagnosticati i pazienti positivi: all’inizio del mese di marzo, erano necessari circa 23 giorni da quando un paziente mostrava i primi sintomi alla conferma della diagnosi. Un lasso di tempo determinante che, se gestito in maniera efficiente, avrebbe limitato la diffusione di contagi.

Ma sono i bilanci delle vittime a mostrare la discordanza tra quanto è stato reso noto ufficialmente dal Pcc a quanto è presente nel rapporto ottenuto dalla Cnn. Il 7 marzo, la seconda data rilevante per il leak, nell’Hubei sono state segnalate 2986 vittime dall’inizio della epidemia, mentre nel rapporto sono riportati 3456 decessi. Ma la contezza del Pcc sull’epidemia è stata probabilmente pregiudicata da un’altra emergenza sanitaria, esplosa lo scorso dicembre.

Secondo i «Wuhan Files», nello Hubei c’è stata un’influenza molto violenta, con un numero di casi 20 volte superiore rispetto all’anno precedente. I leader cinesi sono stati i primi ad affrontare l’epidemia, implementando una serie di restrizioni draconiane intese a frenare la diffusione del virus.

Per questo Pechino nega ogni accusa di poca trasparenza. E lo fa soprattutto con gli Usa. Forse, per difendersi da queste ultime rivelazioni, la Cina utilizzerà uno studio pubblicato lunedì dall’Oxford Academic, secondo cui è stata rilevata la presenza di anticorpi al Covid-19 in 106 campioni di sangue su 7389, raccolti da donatori in nove Stati degli Usa tra il 13 dicembre 2019 e il 17 gennaio 2020.