Nessuno storico dell’arte italiano ha mai avuto un interesse così vivo per l’architettura contemporanea come Carlo Ludovico Ragghianti (1910-’87): più dei suoi coetani Giulio Carlo Argan, Sergio Bettini, Cesare Brandi. Non che questi non fossero attratti dall’architettura, come i loro pregevoli studi documentano, anzi, ma Ragghianti associò alle sue indagini l’impegno politico che lo distinse, sempre schierato (al fianco di altri come Roberto Pane e Bruno Zevi) in difesa dei valori dell’uomo e della cultura nelle battaglie per l’Italia democratica da ricostruire dopo gli anni bui del fascismo e della guerra.
Nel 2015 giunse a questo proposito la raccolta dei suoi scritti, curata da Valentina La Salvia (Per mio conto e fuori dalle convenzioni scientifiche), che contribuì a colmare una lacuna, giacché da molto tempo nulla si era più pubblicato dello storico lucchese. Ora si aggiunge una nuova pubblicazione, editata come la precedente dalla Fondazione Ragghianti, dal titolo Del disegno e dell’architettura: il pensiero di Carlo Ludovico Ragghianti (pp. XVI+259, ill., euro 26,00), in cui la giovane studiosa Lisa Carotti ripercorre le fasi e i contenuti delle tre mostre allestite a Palazzo Strozzi su Frank Lloyd Wright (1951), Le Corbusier (1963) e Alvar Aalto (1966).
Si tratta di mostre memorabili almeno per tre motivi. Il primo riguarda la presenza in vita dei tre maestri, ancora attivi. Wright, Le Corbusier e Aalto avevano compiuto rispettivamente 82, 76 e 68 anni quando giunsero a Firenze a inaugurare le esposizioni a loro dedicate. Il secondo motivo consiste nell’attualità, all’epoca, del loro messaggio, che si inseriva con forza nel dibattito che negli anni della ricostruzione e del miracolo economico italiano spingeva sulla tutela dei centri storici, sulla crisi degli alloggi nelle città, sull’attuazione delle politiche della pianificazione, questioni in realtà ancora stringenti. Il terzo motivo riguarda il metodo critico di Ragghianti, che guarda alla «vita delle forme» sempre in rapporto alla complessa realtà dell’artista, della Storia, e, nel caso dell’architettura, ai problemi specifici che essa è chiamata a risolvere.
L’architettura per Ragghianti non è soltanto tecnica ma anche «espressione artistica»: un tema che tratterà diffusamente dal 1936 sia nella «Casabella» di Giuseppe Pagano, sia nella «Critica d’Arte», la rivista da lui fondata. L’architettura andava distinta dall’urbanistica, che per Ragghianti ha in oggetto, come la politica, le «comunità umane», con le loro dinamiche economiche e sociali. Se si parla, però, di forma urbanistica, allora c’è la necessità, come accade nell’architettura, di individuare un «protagonista». Egli auspicava, infatti, l’«unità» delle due discipline, evidenziando che i risultati sarebbero stati diversi se rivolti alla «vigile razionalità critica» di Le Corbusier invece che all’«anacronistica esteriorità retorica» di un Piacentini.
I maestri invitati a Palazzo Strozzi rappresentavano la prova agente delle possibilità offerte dal processo creativo nei riguardi del futuro della città. Si volevano svelare, con fine pedagogico, i dispositivi da loro messi in atto, dal disegno alla concreta realizzazione dell’opera, perché maturasse anche da noi quello «spirito critico o storico» che è il solo a permettere la crescita, se non degli «artisti creatori» almeno di «uomini tecnicamente addestrati e capaci».
Ogni progetto doveva risuonare in maniera nitida per la cultura architettonica italiana. Nella mostra su Wright il modello di Broadacre City, sistemato isolato in una sala a metà del percorso espositivo, indicava come la città ideale wrightiana, distesa con edifici a bassa densità nel paesaggio naturale, traducesse in spazi di vita comunitaria le aspirazioni di libertà e democrazia dei suoi abitanti.
Al monito dell’unità tra architettura e urbanistica si aggiungerà, dodici anni dopo, quello della connessione tra attività plastico-pittorica e linguaggio architettonico: il caso di Le Corbusier. Solo sette architetture su trecento fra dipinti e sculture per spiegare che la «crisi di civiltà» che si palesò nella guerra con i suoi crimini fu per il maestro svizzero-francese punto d’inizio del passaggio dall’«esercizio di spiritualità razionale» (Villa Savoy, Ville Radieuse) al «mondo primitivo, oscuro, periglioso dell’irrazionale» (Notre Dame du Haut a Ronchamp, Chandigarh).
Con lo stesso impegno metodologico Ragghianti affrontò la sua ultima mostra su Aalto. Con il contributo di due allievi del maestro finlandese, Federico Marconi e Leonardo Mosso, allestì un’esposizione che presentava anche i rotoli di carta trasparente sui quali l’architetto con velocità di mente e matita trasferiva nel disegno le sue idee. Con Aalto, come era stato per Wright e Le Corbusier, si ribadiva che l’architettura non poteva ridursi al «finalismo tematico» del mero fatto «pratico, funzionale, costruttivo».
L’indagine scrupolosa sul disegno d’architettura dei tre maestri era la sola opportunità per Ragghianti di confermare questa tesi, la ragione per cui i disegni autografi di Wright, circa mille, furono da lui fotografati e schedati per costituire una pubblicazione in sei volumi, interrotta al terzo per il divieto posto dallo stesso Wright. Pregio della ricerca di Lisa Carotti sta in particolare nell’avere ricostruito gli indici di questa iniziativa editoriale e nell’ averne riportati in luce gli appunti dello storico lucchese. Un lavoro di scavo storiografico originale di indubbia utilità per il futuro.