Quando in Occidente è scoppiato lo scandalo legato alle molestie sessuali del produttore cinematografico Harvey Weinstein, cui ha fatto seguito la denuncia di migliaia di donne su abusi e molestie sessuali subite anche molti anni fa, in Cina perfino un giornale non direttamente controllato dal governo di Pechino, il China Daily, ci tenne a specificare che questo tipo di problematiche sarebbe tipico delle società occidentali. Nessun problema al riguardo, in Cina.

SI TRATTA NATURALMENTE di una visione decisamente di parte non confermata, non solo dalle recenti denunce, proprio di questi giorni, ma da numeri oggettivi che testimoniano come invece il problema sia parte anche della Cina, una società maschilista in cui gli uomini comandano ogni aspetto della vita sociale, politica ed economica.

Già nel 2013 almeno il 70 per cento di lavoratrici di alcune fabbriche del Guangdong, regione polmone delle esportazioni cinesi, avevano denunciato – a varie organizzazioni non governative – di avere subito violenze sessuali. E a fine 2017 secondo una corte giudiziaria di Pechino almeno il 93 per cento dei casi di divorzi – in aumento – su cui la corte ha dovuto prendere decisioni, dipendevano dalla denuncia di abusi sessuali da parte delle donne.

Non sorprende dunque che in questi giorni la campagna #MeToo che ha contraddistinto le denunce delle donne vittime di abusi, molestie e violenze sessuali, sia giunta anche in Cina.

Lo slogan, #WoYeShi (Anche io in mandarino) ha cominciato a farsi largo tra le reti sociali ipercontrollate dal governo cinese.

La prima donna a portare alla luce il fenomeno è stata Luo Xixi, una ex studentessa di un’università pechinese che ha denunciato il proprio supervisor. Dopo il suo post su Weibo – il Twitter cinese – altre ragazze hanno preso il coraggio e hanno cominciato a raccontare la propria storia.

L’HASHTAG SI È DIFFUSO ma è rimasto silenziato completamente dai media cinesi. Leta Hong Fincher – autrice di un libro intitolato «Betraying Big Brother: China’s Feminist Resistance» che uscirà a giorni – già a fine 2017 aveva specificato al Guardian che nella società cinese c’è una diffusa misoginia a cui andrebbe sommata «un’enorme repressione del governo sul femminismo; per questo tutte le donne che vogliono migliorare la propria condizione lavorativa devono decidere di correre un rischio enorme».

Tutto il sistema cinese – informativo, mediatico, dell’intrattenimento – corrobora questa visione: alla donna è sempre riservato un ruolo «di una buona moglie e di una buona madre e pronte a prepararsi ad allevare figli»

Gli ambiti che al momento sembrano quelli maggiormente denunciati sono due: il mondo universitario e quello lavorativo. Nei giorni scorsi, come riportato dal Washington Post, Sophia Huang Xueqin, impiegata presso una news-agency cinese, ha denunciato abusi sessuali sul luogo di lavoro. Anche lei dopo aver visto il successo di #MeToo, ha deciso di trovare il coraggio per raccontare la sua storia, risalente a sei anni fa. Dopo aver postato la propria esperienza ha chiesto ad altre donne di fare la stessa cosa, aprendo anche un sondaggio su WeChat, un’applicazione che unisce diverse tipologie di social e che risulta più difficile da controllare e «armonizzare».

AL SUO SONDAGGIO hanno partecipato 225 giornaliste cinesi: l’80 per cento di loro ha denunciato di aver subito abusi sessuali sul luogo di lavoro.

La domanda che ci si pone, una volta che questa campagna di denuncia è arrivata anche in Cina, è quanto e come potrà svilupparsi in un paese dove il controllo sull’informazione è in mano a uomini, per lo più, che non hanno alcun scrupolo nel censurare e oscurare battaglie importanti come quella appena nata di #WoYeShi. Al momento l’hashtag non è censurato e tutto lascia pensare che dipenderà dalla natura che questa iniziativa prenderà: se saprà mantenere quel difficile equilibrio tra sociale e politico, senza lasciare supporre la messa in discussione del partito comunista, potrebbe anche avere seguito.

Un risultato potrebbe essere quello di migliorare la legge sulla violenza domestica, approvata nel 2016, ma giudicata ancora carente dalle coraggiose femministe cinesi.