Di recente ci si è chiesti se Ernst H. Gombrich (1909-2001) avesse, in fondo in fondo, qualcosa a che fare con la Storia dell’arte, arrivando a rispondere negativamente in ben dieci punti. Risiederebbe in questo ‘equivoco’ il motivo della sostanziale assenza, nell’agenda della disciplina, dei temi e dei problemi posti dagli studi di Sir Gombrich. Che si concordi o meno con un tale assunto (e chi scrive, sarà bene dichiararlo subito, non concorda affatto), resta un quid su cui riflettere: l’opera di Gombrich è uscita, poco a poco, dall’orizzonte imminente degli studi; o almeno le è toccata una certa periferizzazione. Forse non sarà così – o solo in misura minore – per i paesi di lingua inglese, ma vale la pena di osservare che, almeno per l’Italia, quell’analisi coglieva nel segno. Eppure proprio le indagini svolte da Gombrich furono il punto di avvio di studi che, tuttora, paiono non aver perso nulla del loro smalto. Solo una questione di ‘invecchiamento precoce’, dunque?
Uno degli assi portanti degli studi e delle riflessioni di Gombrich ha ruotato attorno al problematico, complesso e (spesso) inadeguato rapporto che lega le parole alle immagini. Due entità diverse, al fondo incommensurabili, e che, tuttavia, seppur magari obtorto collo, non hanno potuto fare a meno di convivere. Un tema, questo, che è stato poi sviluppato, com’è ben noto, dai cruciali studi di Michael Baxandall. È proprio a questo problematico rapporto tra il ‘visivo’ e il ‘linguistico’ che è dedicata l’antologia di scritti appena pubblicata da Carocci, Immagini e parole, a cura di Lucio Biasiori (pp. 222, 73 ill., euro 24,00), che ha anche approntato le eccellenti traduzioni dei saggi.
La parola dei documenti
Il volume raccoglie sei saggi di Gombrich finora mai tradotti in italiano. Scalati nell’arco di quasi vent’anni (il più antico fu pubblicato nel 1950, il più recente nel 1968), i testi conservano la traccia dell’occasione che li ha originati, dalla lecture universitaria alla conferenza meno formale. In ognuno di essi, da punti di osservazione di volta in volta diversi, al centro dell’analisi si pone proprio il rapporto tra parole e immagini. Come scrive Gombrich nel primo dei saggi del volume – che è poi anche quello che dà il titolo all’intera silloge, e che risale, come si è detto, al ’50 – quella locuzione veniva da Aby Warburg, fondatore dell’Istituto che porta ancora il suo nome e che tanta parte ebbe per il futuro di Gomrbich: «Das Wort zum Bild». Ma la ‘parola’ che si deve unire all’ ‘immagine’ non è la nostra, è piuttosto quella dei documenti o, più in generale, dei testi che permettono di cogliere appieno e più in profondità il senso dell’opera d’arte.
Per comprendere come questo assunto agì negli studi di Gombrich è necessario fare un passo indietro e riandare ai maestri che il giovane Gombrich aveva avuto all’inizio del Novecento a Vienna. Gli studi di Alois Riegl, ad esempio, che tra le altre cose avevano offerto strumenti concreti per valutare, nella sua specificità, lo stile ‘barbarico’, cioè le forme artistiche tipiche della tarda antichità. Gombrich aveva però sviluppato ulteriormente quegli strumenti e quelle analisi per stringere ancora di più il nodo del rapporto tra un’opera e il suo immediato contesto di produzione. Riuscire ad andare oltre concetti astratti come quello di Zeitgeist o di Kunstwollen permette di calare nella concretezza delle cose i fenomeni artistici, «in termini di persone, movimenti e reazioni», per usare le parole dello stesso Gombrich. Alla fine di quel decennio, nel 1960, sarebbe stato pubblicato quel capolavoro che è Art and Illusion (trad. italiana, Einaudi 1965), in cui gioca un ruolo centrale il modo in cui le opere vengono concepite e percepite dall’osservatore. Tenendo conto del percorso intellettuale dello studioso si potranno anche meglio ricollocare i saggi del volume sullo sfondo del momento in cui vennero scritti.
Già da queste considerazioni si comprende quanto il discorso svolto nei saggi sia ricco – come sempre, del resto, in Gombrich – e possa dare l’innesco a ragionamenti proficui spesso anche lontani dal punto di partenza. Così, le pagine dedicate al Rinascimento costituiscono una lucida messa a punto di come questa parola, e i diversi concetti che a essa hanno fatto capo nel corso del tempo, abbia potuto essere traghettata da un’era all’altra divenendo concetto vivo e operante per ognuna delle epoche successive al ‘Rinascimento’ inteso in senso propriamente storico. È chiaro che le opere d’arte sono ‘immagini’ assolutamente speciali, particolarissime, che necessitano, per essere comprese, di una molteplicità di operazioni che stanno al di qua (chi le ha commissionate? perché? per quale motivo proprio a quel dato artista? ) e al di là dell’opera stessa (sono state opere influenti? in che modo si situano nella tradizione? in che modo la innovano?).
Il Ghirlandaio di Santa Trinita
Anche attorno a questi problemi Gombrich ha pubblicato contributi fondamentali, come dimostra il quinto saggio del libro, dedicato al ciclo di affreschi della Cappella Sassetti nella chiesa di Santa Trinita a Firenze, opera di Domenico Ghirlandaio, tanto cara a Aby Warburg. Un esempio di come un’opera possa essere compresa come il ‘crocevia’ di istanze, che permette di fare luce sul suo immediato contesto storico, sul senso di certe scelte compiute dall’artista, sulla necessità di indagare i diversi contesti dei quali l’opera, in certo senso, partecipa e dai quali trae origine.
Pur se i saggi della raccolta vennero scritti nell’arco di quasi vent’anni di attività, colpisce la grande coerenza dell’insieme, quasi che sin dall’origine vi fosse una sorta di percorso inconsapevolmente già disegnato. Come si chiede il curatore nella sua bella introduzione, «perché Gombrich?», è a dire perché tradurre in italiano, in un unico libro, questi sei saggi? Si torna, qui, al punto da cui siamo partiti. È forte l’impressione che oltre dall’orizzonte degli studi, l’opera di Gombrich sia uscita, letteralmente, anche dalle librerie. Nel mezzo c’è stato un cambiamento piuttosto radicale del pubblico e dell’editoria. Prima o poi bisognerà impostare un ragionamento sul fatto che la Storia dell’arte ha perso completamente un suo ‘spazio’ editoriale. Oggi basta un bel libro con tante figure (mal stampate), meglio se con testi (pochi) semplici e poco impegnativi. È chiaro che in una tale banalizzazione di pubblico ed editoria per Sir Ernst sia rimasto ben poco spazio. Di Gombrich, oltre al longseller The Story of Art (trad. italiana, Einaudi 1970), in libreria si trova poco altro. Così, chi abbia voglia di leggere Gombrich è un po’ costretto ad andarselo a cercare, ricorrendo magari all’e-commerce. Uno stravolgimento notevole dato che sino a qualche decennio fa quasi tutta la sua opera era pubblicata da Einaudi: oggi la rotta è cambiata e – salvo poche eccezioni – segue le mode peggiori. Eppure, quanto bene farebbe rileggere Gombrich proprio oggi, in un momento di imperante e preoccupante positivismo di ritorno, in cui si annega tra fiumi di dati ma manca del tutto uno sguardo prospettico sulle cose. E dunque, a voler appiccicare etichette, si dovrà certo dire che Gombrich non fu uno storico dell’arte. Fu molto, molto di più. A dimostrarlo sta la vitalità dei suoi studi, capaci di sollecitare importanti riflessioni ben al di là degli steccati (del tutto fittizi, eppure così rigidi) disciplinari. Non resta che sperare che la via aperta da questo volume e dai suoi fautori, curatore ed editore, non rimanga un caso isolato.