Heartland di Anthony Cartwright (66thand2nd, 2013, pp. 289, euro 17, traduzione di Daniele Petruccioli) è un romanzo «working class» incorniciato nei 90 minuti di una partita di football, Argentina-Inghilterra del mondiale nippo-coreano del 2002. I 90 minuti del match riuniscono in un pub, davanti allo schermo, i protagonisti del romanzo mentre la narrazione si articola in più sequenze narrative che, con lo stratagemma del flashback, scompongono il plot su vicende distinte. Al centro del racconto c’è Rob, un armadio pieno di magliette di calcio impilate, cresciuto con ideali di solidarietà operaia respirati in casa, educatore precario di sostegno e insegnante di educazione fisica con un passato a luci alterne nel calcio professionale.
Le vicende di Rob si incrociano con quelle dello zio Jim, assessore laburista storico di Cinderheat, e con la labile figura del padre Tom, vecchia leggenda del calcio locale, una carriera sportiva interrotta bruscamente da un infortunio che lo ha spostato dai campi da gioco all’opificio industriale. A lato c’è la misteriosa scomparsa di Adnan, il ritorno di Jasmine, una compagna d’infanzia e l’amicizia con Zubair. Attorno a questi personaggi, una vecchia e dimenticata storia di violenza di bande giovanili che torna a galla, una nuova moschea da costruire che diventa il pretesto per soffiare sul fuoco e convertire gli abitanti del distretto siderurgico a votare per le destre e una partita di calcio tra due squadre locali, una delle quali composta da musulmani, che sembra la scintilla che farà scoppiare un incendio. Attorno c’è il collasso delle torri gemelle, un mondo di violenza strisciante sulle rovine del distretto minerario del Black Country, i quartieri diventati irriconoscibili, i pestaggi delle gang giovanili che esagerano con l’alcool e i coltelli, le sicurezze laburiste andate in frantumi. Il volto più realistico di certa Inghilterra, senza la rassicurante figura del Cantona di Ken Loach a rimettere le cose a posto alla fine. Cartwright, come altri autori britannici, ha raccontato magistralmente la frammentazione della coscienza di classe delle comunità operaie di fronte alla crisi della grande industria. Qualcosa che conosciamo anche noi: la dismissione delle fabbriche, la disoccupazione, la trasformazione dei quartieri e delle città operaie, l’arrivo di lavoratori in fuga dai paesi in cui il padronato sta delocalizzando, le nuove parole d’ordine dei movimenti identitari di destra che hanno cavalcato l’onda della crisi economica e della disaffezione dalla politica, l’evanescenza dei sindacati e dei partiti dei lavoratori, che non tutelano più le nuove generazioni assunte con contratti precari. Giovani working class, che ormai lavorano come kitchen assistant, magazzinieri, addetti alle pulizie, commessi in negozi di telefonia, senza aver mai visto una catena di montaggio. Una nuova organizzazione del lavoro che in Inghilterra è stata imposta a partire dagli anni della Thatcher (non a caso l’ultimo romanzo di Cartwright si intitola How I Killed Margaret Thatcher) e che si è spinta avanti fino all’avvento delle nuove possibilità di distruzione della consapevolezza di classe fornite dalle agenzie di «somministrazione di lavoratori», dall’informatica, dalle tecnologie di comunicazione, dai contratti flessibili. Infine, la svolta del 2001: il razzismo culturalista che mette in discussione il multiculturalismo britannico, le paranoie sulla sicurezza e il terrorismo, il New Labour di Blair, la guerra.
Cartwright ci offre un’immagine della working class inglese degli ultimi anni costruita – com’è giusto – attorno al football, alle pinte bevute tra compagni al pub e alla violenza strisciante tra le bottiglie di birra rotte sul selciato. Una working class che ancora nel Regno Unito è orgogliosa di se stessa e si percepisce antagonista al ceto medio, eppure si trova in profonda crisi identitaria e politica. Anche perché il calcio e il pub ricompongono le tensioni a stento. I nomi di Campbell e Giggs, di Scholes e Owen, i colori dei club proletari non bastano a fornire una progettualità politica. Tutti d’accordo: guai a mostrare simpatia per l’odiata Argentina. Nessuno osa ordinare una mezza pinta e anche il pirata della slot-machine ha abbandonato la sua adorata macchina per seguire la partita. Ma fuori dal pub ci si ammazza di botte per nulla tra poveracci e intanto il padrone sta smontando la fabbrica per delocalizzarla in Asia. Il cambiamento è la chiave del libro. La rassicurante presenza dei minatori e dei metalmeccanici del Black Country non si aggira più per le strade di Cinderheat e ai figli degli operai, privi di speranze, di aggregazione sociale e di strategie di lotta, rimane solo una rabbia che lentamente evapora, come i liquidi di una batteria giù di tensione.