È giusto o meno che quando, a partire da venerdì, i circa seimila membri dell’Academy of Motion Pictures voteranno le loro preferenze per gli Oscar, sia loro richiesto anche di tener programmaticamente conto di fattori extrafilmici come la vita privata del regista o l’aderenza etico/politica di un titolo in lizza per la statuetta? È la domanda che poneva ieri un articolo di Michael Cieply pubblicato sul New York Times, con cui il quotidiano ha dato riscontro di un’interferenza sempre più frequente tra il meccanismo che ogni anno culmina con la cerimonia degli Academy Awards (e del corollario di premi/cerimonie diversi che la precedono) e una serie di stimoli esterni che intendono influenzarla. Lo spunto, chiaro, sta in un pezzo apparso domenica sulla pagine Op-Ed dello stesso giornale e sul blog di uno dei suoi editorialisti più stimati, Nicholas Kristof, che ha ospitato una lettera, nella quale uno dei figli adottivi di Woody Allen, Dylan Farrow, descriveva il giorno in cui il regista di Blue Jasmine l’avrebbe molestata, all’età di sette anni, con la scusa di portarla in soffitta a giocare con un trenino elettrico. L’accusa non è nuova, venne infatti sollevata nel 1993, nella causa che Mia Farrow intestò contro Allen per ottenere la custodia dei tre figli. Allen l’ha sempre definita falsa (e lo ha fatto nuovamente domenica, attraverso un suo legale: «È tragico che, dopo vent’anni, la storia inventata da un’amante vendicativa riappaia in superficie dopo essere stata verificata e rifiutata dalle autorità. C’è una sola persona responsabile del disagio di Dylan. E non si tratta né di Dylan né di Woody Allen»). Al tempo, Mia Farrow vinse la causa per la custodia dei bambini, un gruppo di psicologi concluse che Dylan non era stata abusata e il giudice, pur definendo il regista «un padre assorto in se stesso, inaffidabile e insensibile», concluse che, date le prove esistenti, non c’erano le basi per intentare un processo a parte.

Quello che è nuovo rispetto al 1993 è che, questa volta, le accuse di Dylan chiamano in causa direttamente Hollywood e il favore con cui ha accolto l’ultimo film del regista newyorkese. La lettera di Farrow afferma che l’indifferenza dell’industria del cinema ha accresciuto il suo tormento, e si rivolge in prima persona a Cate Blanchett (protagonista di Blue Jasmine e grande favorita all’Oscar) e Diane Keaton che, il mese scorso, ha consegnato ad Allen il Golden Globe per la carriera. «Si tratta chiaramente di una situazione lunga e dolorosa per la famiglia. Spero che trovino pace e una risoluzione», ha detto Blanchett apostrofata sull’argomento da un blogger durante un evento al Santa Barbara Film Festival. «L’Academy onora i meriti del cinema, non la vita privata di filmmaker e artisti» è stata la risposta ufficiale dell’Academy of Motion Picture a Cieply.

Non si sa, ovvio, se la lettera di Dylan avrà un effetto sul voto. Chiaro però che il suo tempismo ha quello scopo. Chiaro anche – e in questo senso il pezzo di Cieply solleva una questione che va ben oltre il destino di Blue Jasmine agli Oscar – che il cinema, i film, sembrano sempre più vulnerabili a degli oscillamenti di opinione che dipendono da fattori esterni. L’anno scorso la (s)fortuna di Zero Dark Thirty agli Oscar e al botteghino, è stata decretata da una campagna anti-tortura (come se apprezzare il bellissimo film di Bigelow ti iscrivesse automaticamente al fan club di Rumsfeld). Quest’anno la cronaca di un’anteprima di bancari entusiasti di fronte a The Wolf of Wall Street ha garantito che gran parte dei critici prendessero le distanze dal film di Scorsese perché forse troppo soft nei confronti dei suoi soggetti …

Allo stesso modo, una campagna spregiudicatamente condotta all’insegna di «questo è il primo film sullo schiavismo», ha conferito al successo di 12 Years A Slave un’aura di inevitabilità piuttosto sgradevole (il giornalista nero neyworkese Armond Whit, che ha osato criticarlo ad alta voce è stato bandito dall’associazione critici della città).

In parte si tratta di PC (politicamente corretto) dilagante, in parte della vulnerabilità istituzionale e anche culturale della critica cinematografica contemporanea. Ma questo è un discorso a parte.