A Rainy Day in New York è svanito nel nulla, Amazon dopo averlo prodotto ha preferito «cancellarlo» preventivamente a fronte delle (certe) critiche a cui andava incontro distribuendolo. Anzi a sottolineare la presa di distanza dal suo autore ha reciso il contratto con lui per i prossimi quattro film.

Ieri è stato reso noto che nessun editore americano ha accettato di pubblicare la sua autobiografia, un libro di memoir a cui sembra lavorava da diverso tempo, che chiunque per avere in esclusiva, solo fino a poco tempo, sarebbe stato disposto a investire milioni. Ma oggi Woody Allen è peggio di quegli appestati manzoniani da cui tutti fuggivano timorosi del contagio messo all’indice nella furia di un «politicamente corretto» (?) che ha trasformato l’ottantreenne regista in una specie di «M» (Il mostro di Dusseldorf) dei nostri tempi.

L’accusa di molestie scagliata su di lui come una pietra (tombale) dalla figlia Dylan lo ha sepolto. E poco, anzi nulla importa se indagini, accertamenti, tribunali lo hanno sempre dichiarato estraneo ai fatti, Woody Allen è colpevole, tanto basta per espellerlo da qualsiasi comunità cinematografica e umana. Attrici, attori, amici gli hanno voltato le spalle divenendo i suoi principali accusatori.

Effetti del #MeToo si legge da qualche parte. Ma non era il #MeToo un movimento nato per dare la parola a chi se la vedeva culturalmente e tradizionalmente negata, le donne per prime, dentro un sistema di diseguaglianza? Niente a che vedere con questa specie di Inquisizione che sceglie i suoi obiettivi quasi con gusto vendicativo. E si fa pretesto per normare, controllare, reprimere la libertà di creazione, di pensiero, di immaginario.

Censurare Woody Allen, e chiunque altro, non è una conquista, ma una terribile sconfitta. Per tutte e tutti.