Più di 100 milioni di dollari dopo il primo week end nelle sale Usa, un’unanimità quasi totale (94% su Rotten Tomatoes) di recensioni positive, grandi applausi perché alla regia di un film su un supereroe donna c’è una donna, a cui tra l’altro è stato affidato il budget più alto mai concesso (150 milioni contro i 100 di Kathryn Bigelow per K 19) a una collega del suo gender; aiuta a tenere «alta» la storia persino la polemica legata all’iniziativa della catena di sale Alamo Drafthouse di organizzare proiezioni «per sole donne» (già nell’aria una causa per discriminazione).

In un meix un po’ sinistro di zeitgeist e di marketing, il successo di Wonder Woman, che aleggiava nell’aria già prima dell’uscita del film, è stato confermato dal suo trionfale arrivo in sala, il week end scorso. Il pubblico diviso più o meno al 50% tra uomini e donne, la nuova collaborazione tra Warner Bros. e DC Comics, di gran lunga la loro creazione più solare, sembra destinata a soddisfare l’ambizione dello studio di integrare maggiormente l’orbita dei supereroi da grande budget estivo e, secondo l’auspicio, incoraggiare la presenza femminile dietro alla macchina da presa anche nelle maggiori produzioni da studio.

Oltre al clima culturale, gran parte del merito grazie a cui Wonder Woman sembra aver riscattato la storica antipatia critica per l’action adventure monumentale, cupissimo e monotono di matrice DC comics – passato dalle mani di Cristopher Nolan, in quelle Zack Snyder- va alla star del film. È la trentaduenne Gal Gadot – ex Miss Israele, vista di sfuggita in Batman vs Superman, in Fast & Furious 6 e nelle pubblicità Gucci – che è dotata delle giusta combinazione di bellezza, forza fisica (due anni di servizio militare israeliano dove faceva l’istruttore di combattimento), humor e accattivante morbidezza pin up, da risultare un supereroe soddisfacente per i nostri tempi, e allo stesso tempo fedele al fumetto creato nel 1941 da William Moulton Marston, portato in tv da Lynda Carter tra il 1975 e il 1979, dopo che Gloria Steinem aveva trasformato l’amazzone di Marston in un’icona paci-femminista, dedicandole la cover del primo numero della rivista storica del movimento per le donne «Ms». Persino l’accento, straniero, gutturale, di Gadot è perfetto per il disegno del personaggio del film, un po’ pesce fuori d’acqua e un po’ naïve. La regista, Patty Jenkins, che ha al suo attivo Monster, il poco ispirato film sulla serial killer Aileen Wournos, che giovò un Oscar a Charlize Theron, e il notevole pilot della serie tv The Killing, ha detto infatti in molte interviste di essersi ispirata più che agli altri film tratti dai fumetti DC, ai primi 3 Superman, diretti, tra i 70 e 80, da Richard Donner e Richard Lester. Quel tono più leggero, condito di un certa innocenza nei confronti del genere (era l’alba del supereroe hollywoodiano), fa da antidoto alla componente wagneriana, decadente propria di Znyder, ed è tessuto nella sua stessa trama.

Wonder Woman è infatti una storia delle origini che, dopo un breve prologo ambientato al Louvre, si sposta a Themyscira, un’isola montagnosa sperduta in un oceano turchese, dove le amazzoni – create da Zeus per sconfiggere il dio della guerra, Aries – scorrazzano liberamente e imparano l’arte del combattimento e dell’acrobazia volante, comandate da Connie Nielsen perfetta, con la sua aria vichinga, e da Robin Wright che è il loro generale. Su uno sfondo piacevolmente tra Frank Farzetta e Amazzoni sulla luna di John Landis, la piccola Diana, figlia della regina, diventa la guerriera più feroce dell’isola. Lo strumento del suo destino fuori da quel paradiso (dove, Diana ha appreso che «gli uomini servono per fare i figli, ma per il piacere non sono necessari») arriva dal cielo, sotto forma di un pilota americano (Chris Pine) abbattuto dalle truppe del Kaiser. Convinta che Aries sia l’unico ostacolo alla vocazione altrimenti pacifista del genere umano, Diana riparte con il pilota alla volta del fronte della prima guerra mondiale, decisa a trovare il dio reietto e ad ucciderlo. Avvolta in un costume da cui è scomparso l’effetto bandiera a stelle e strisce dell’eroina di Marston e dell’incarnazione di Lynda Carter, il rosso e il blu smorzati da toni bronzei, Diana è lo stesso un personaggio un po’ jamesiano, naïve, nella Londra d’inizio novecento.

Lo shopping da Harrods, parte come quello di Audrey Hepburn in My Fair Lady, ma risulta solo in un severo abito di lana grigia sotto cui nascondere lo scudo, la spada e il lazo incantato che obbliga a dire la verità. Molto bella la sequenza in cui, schizzando fuori da una trincea, libera un paesino tedesco. Sola contro il fuoco nemico. Molto più prevedibile, la parte finale, con il duello condito della musica insopportabile dell’allievo di Zimmer Rupert Gregson-Williams. Adesso che ha capito che noi umani non siamo buoni per natura, speriamo che, per il capitolo 2, già previsto, oltre all’ingenuità, Diana non perda lo spirito.