Wols, “L’Inachevée”, 1951, courtesy collection Karsten Greve, Saint Moritz

 

Che una mostra maggiore di Wols, la prima retrospettiva dedicatagli a Parigi dopo quella del 1973-’74 al Musée d’Art Moderne de la Ville, si sia chiusa per un evento catastrofico dopo una decina di giorni di apertura sembra confermare la definizione di un Wols «povero diavolo», inventata dall’amico Jean-Paul Sartre, suo grande ammiratore, per sottolinearne l’affinità e il contrasto con il maggior creatore di angeli del Novecento, Paul Klee. Sono stato quindi uno degli happy few a vedere, in un Centre Pompidou scorticato e un po’ spettrale per i massicci lavori di manutenzione, l’esposizione Wols. Histoires Naturelles, a cura di Anne Montfort-Tanguy (un centinaio abbondante di opere, per metà provenienti dalle collezioni del museo, per metà in prestito, ordinate in cinque sezioni: intrappolare, tramutare, concentrare, decomporre, spruzzare), la seconda della mia vita dopo quella, indimenticabile, di Zurigo del 1989.
Nelle sue varie espressioni quella di Wols è una delle esperienze più intense dell’arte europea del Novecento, dalle fotografie scattate a Parigi nel corso degli anni trenta ai dipinti eseguiti tra il 1946 e il 1951, dove l’artista gioca con gesto, segno e materia, inserendosi così nella situazione più avventurosa dell’arte francese ed europea del periodo. I disegni e gli acquerelli restano tuttavia il cuore del suo lavoro e lo accompagnano per tutta una vita condotta da clochard celeste (come lo definisce, pensando a Jack Kerouac, Hervé Vanel nel catalogo) e, tra la fine degli anni trenta e la prima metà dei Quaranta, costituiscono il suo unico mezzo espressivo.
Wols, contrazione di Alfred Otto Wolfgang Schulze, era nato nel 1913 a Berlino. Suo padre, alto funzionario di Stato, colto, amante dell’arte e amico di intellettuali, morì nel ’29 e tre anni dopo Wols, non ancora ventenne, si trasferì a Parigi, su consiglio di László Moholy-Nagy. Lì cominciò a fare fotografie ed entrò in contatto con gli ambienti dell’avanguardia, specialmente con i surrealisti, come rivela l’identità delle persone da lui ritratte: tra gli altri Jacques Prévert, Max Ernst (ai cui frottage fa pensare il titolo della mostra), Camille Bryen… Le altre fotografie realizzate da Wols negli anni trenta hanno una qualità perturbante che le avvicina, lo si è detto spesso, a quelle dei fotografi dell’informe, come Eli Lotar, Jacques-André Boiffard o Brassaï: pezzi di animali scuoiati e riassemblati, articoli di una Wunderkammer alla rovescia, come i rognoni di un senza titolo del 1938-’39 (Nature morte, Reins), disposti in bell’ordine su un tessuto stampato a motivi astratti, o gli altissimi manichini concepiti da Robert Couturier per il Pavillon de l’Élégance all’Expo di Parigi del ’37, restituiti da Wols con un senso di allucinata desolazione.
Dal ’39 al ’46 egli abbandona ogni altro mezzo che non sia il disegno o l’acquerello, uniche tecniche praticabili in situazioni di emergenza: con l’inizio della guerra nel settembre del ’39, infatti, sebbene antinazista e ormai francesizzato, Wols viene rinchiuso in campo di prigionia perché cittadino di un paese ostile e passa da campo a campo fino ad approdare al Champ de Milles, in Provenza, da cui esce nell’autunno del ’40 solo grazie al matrimonio con Gréty Dabija, romena di nascita ma di nazionalità francese. I due si stabiliscono prima a Cassis, poi a Dieulefit, nella Drôme, dove sarebbe rimasto sino alla fine della guerra, in condizioni di povertà estrema. Nel Natale del ’42 conosce Henri-Pierre Roché, che lo mette poi in contatto con René Drouin, nella cui galleria si tennero negli anni della guerra le mostre aurorali di Jean Fautrier e Jean Dubuffet. Drouin nel ’45 gli organizza, con fatica, una mostra di opere su carta (nel ’42, senza successo, ne era stata esposta una scelta a New York, da Betty Parsons). Gli acquerelli e i disegni a penna sono eseguiti tra la fine degli anni trenta e i Quaranta su fogli piccoli, talora minuscoli, dove tuttavia si muovono universi intricati e insondabili e avvengono continue metamorfosi; affiorano protozoi, figure umane, paesaggi, scale, scarafaggi, strumenti musicali… tutto riportato alla scala di un mondo in miniatura che vive sulla carta grazie a un tasso di concentrazione pari solo a quello della visionarietà.
Attorno al 1941 negli acquerelli e disegni si verifica un marcato cambiamento: da una dimensione favolistica, che ricorda l’arte di Klee e Tanguy, dove oggetti e figure, pur nelle mutazioni subite si distinguono ancora (come i corpi, la panchina e la scala nel senza titolo del 1939: Le Bikini clavier), Wols passa a uno spazio indefinito e vertiginoso, colmo d’inquietudine, dove (erede del Romanticismo tedesco) fa convivere, senza mai dare loro forma stabile, l’infinità dell’«astrale interplanetario» e la minuzia di «microcosmi invisibili» (Jean Sylveire). Con i quadri a olio, eseguiti sotto la spinta di Drouin a partire dal ’46 ed esposti per la prima volta in quella galleria nel ’47, le dimensioni dell’immagine si espandono e Wols, senza volerlo, si ritrova da protagonista in quell’area della ricerca artistica europea e statunitense che Michel Tapié, battezzandola «informale», cercava allora di perimetrare con una fitta attività di mostre e testi critici.
Secondo Sartre nella bottiglia di acquavite che Wols portava sempre con sé c’era la sua morte. In realtà, ripulitosi il sangue dopo anni di etilismo nella primavera del 1951, il primo settembre di quell’anno l’artista fu ucciso da un avvelenamento alimentare: come sentii dire una volta da un poeta appassionato del suo lavoro, Wols non poteva che morire mangiando cibo guasto.
In una lettera bellissima e disperata, scritta qualche tempo dopo la scomparsa di Wols (e pubblicata in chiusura delle giuste note biografiche redatte da Valérie Loth per il catalogo), Gréty ricorda a Bryen: «Devi sapere che Wols dopo il 1945 ha lavorato sempre in una piccola stanza d’albergo» senza sapere i nomi dei colori, senza cavalletto né tavolozza, di notte, alla luce fioca di una lampadina o a lume di candela. «Mi ha sempre detto che pensava tutto quando suonava il banjo, alle tele che vedeva molto chiaramente sulla retina (a occhi chiusi)… e che (poi) l’esecuzione materiale… era un gioco da ragazzi». Quello del vedere a occhi chiusi è tema onnipresente in Wols. «Vedere è chiudere gli occhi», diceva in modo aforistico e paradossale per definire la propria attitudine visionaria, simile a quella del suo amico Alberto Giacometti quando riferisce che l’immagine de Il palazzo alle 4 di mattina gli si era formata in testa pian piano e, una volta chiarita, metterla in opera gli aveva richiesto solo un giorno.
Meno di una settimana prima dell’apertura della mostra di Wols, si chiudeva al Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris una grande esposizione dedicata a Hans Hartung, nobile figura di artista e antifascista, che combatté i tedeschi occupanti accanto ai francesi, perdendo una gamba per le ferite riportate in battaglia. Se Hartung attraversa vicende comparabili a quelle di Wols (la comune nazionalità tedesca, la scelta della Francia, l’antinazismo), nel suo lavoro si avverte una risolutezza nella determinazione dello spazio e del rapporto fra il gesto, la sua traccia e la superficie che appare come il contrario dello spazio palpitante, indefinibile, in continua trasformazione degli acquerelli e disegni di Wols, dove non si arriva mai alla fine, ma in fogli poco più grandi del palmo di una mano si è condotti, senza ancoraggio, verso abissali profondità.