Corredato da una serie di mappe della Nigeria dagli anni cinquanta al 1991, che nel riportare i cambiamenti di confine delle regioni interne offrono l’equivalente grafico della tortuosa storia nazionale, con una cronologia che alterna elezioni (spesso invalidate) a colpi di stato (otto, dall’indipendenza al 2008), il lungo memoir di Wole Soyinka – il terzo dopo Aké. Gli anni dell’infanzia e Isara. Viaggio intorno a mio padre – si presenta come un resoconto storico del paese che si affrancò dal Regno Unito nel 1960 per non trovare, tuttavia, pace negli anni a seguire. Le oltre novecento pagine di Sul far del giorno (La nave di Teseo, pp. 924, € 24,00) scorrono come un romanzo pur essendo il racconto autobiografico della maturità del poliedrico Nobel nigeriano, che torna nelle librerie in una riedizione ampliata, a cura della stessa Alessandra Di Maio, autrice di una parte già tradotta per Frassinelli. Nelle trame della storia nazionale si innesta la vicenda non meno drammatica, sebbene entusiasmante e persino avventurosa, dello scrittore, raccontata con brio e illustrata da un nuovo apparato di più di quaranta fotografie, molte inedite, di rilevanza pubblica e privata.

La storia di Soyinka corre su molte strade diverse, intrecciandosi con quella della Nigeria, paese amato, al centro del suo ricco immaginario poetico – in tutti i generi con cui l’autore si misura, dal teatro alla poesia, dal romanzo al saggio teorico – e nodo essenziale della sua battaglia etica e politica: terra privilegiata dove lo scrittore vorrebbe vedere realizzati gli ideali di giustizia e democrazia che animarono le lotte anticoloniali. Strade, dunque, che sono luoghi reali e allo stesso tempo sono metafore. Lunghi rettilinei che, nello spazio tangibile o idealmente, creano senso collegando, separando, riunendo, costeggiando i luoghi più svariati – mercati, villaggi, boschi, deserti, città – così come in Europa non accade. In Europa le strade sono funzionali, afferma Soyinka, mentre in Africa hanno un carattere mistico, sono abitate ancora da quegli dèi che non serve essere devoti per scorgere ovunque. Tra questi, il prediletto è Ogun, re dell’acciaio ma anche della guerra, dio della creazione e della rivoluzione, nozioni inseparabili tanto nella mitologia yoruba quanto nella vita e nella poetica dell’autore; Ogun, ovvero «colui che parte per primo», è dio, non ultimo, della strada. Su di lui, del resto, già nel 1976 Soyinka aveva scritto uno dei suoi poemi più belli e complessi dedicandolo ai martiri sudafricani dell’apartheid.

Sul far del giorno racconta, dunque, come Soyinka – che si muova per piacere oppure, come più spesso gli è accaduto, per necessità – ami mettersi sulla strada alle luci dell’alba, in quell’«ora santa», come recitano altri suoi versi, che promette prodigi. Il viaggio, con le sue partenze, cesure, abbandoni, incontri, nostalgie, frustrazioni, entusiasmi e alla fine sempre ritorni, interseca a sua volta, inevitabilmente, l’altro macro tema della vita e del racconto dello scrittore: l’esilio. Quello «stato intenso di vita in bilico», che è l’esilio, si comincia a profilare già quando, da studente «maturo» nell’Inghilterra degli anni sessanta, Soyinka tocca con mano l’inospitalità britannica, e saggia l’ipocrisia di quella falsa madre patria che, solo un decennio prima, gli intellettuali caraibici, analogamente delusi, avevano ritratto in memorabili romanzi. Ma Soyinka lascia la Nigeria anche costretto dalle circostanze che lo rendono sempre inviso ai suoi governanti: va nel vicino Benin, poi negli Stati Uniti, e ancora in Europa, a più riprese, per fuggire da un regime che via via lo imprigiona, lo censura, lo inchioda in casa, lo condanna a morte in contumacia.

Via dalla Nigeria per salvarsi la vita, per poter continuare a esercitare con libertà quella sorta di missione di interprete del popolo e suo cantore, di critico infaticabile di tutte le manifestazioni del potere e dell’autoritarismo, che toccano i livelli più infimi con il regime di Sani Abacha; «tre D», come lo chiama Soyinka, «dittatore demente debosciato» da vivo, «quattro D», con l’aggiunta di «deceduto», una volta morto. Ma da lontano è difficile poter continuare ad essere guida – «Prof» lo chiamano gli amici più cari così come la gente qualunque che lo riconosce da sempre per le strade del paese – ed è difficile, in una lontananza che tutto altera e deforma, mantenere vivo l’entusiasmo, non inaridirsi. Il mondo dell’esilio, fino a quando non si torna, va riempito: di ricordi, di ricerche, di nuovi e vecchi incontri, di possibili e impossibili intrecci che portano infatti Soyinka a rifiutare l’immobilismo – perché il principio della libertà, anche di pensiero, è il movimento.
Lo portano a muoversi di continuo, per contrattare come può sulla sua Nigeria con funzionari e alte cariche politiche nazionali e internazionali, ma anche – perché tutto il mondo lo riconosce –– per ritirare premi, tenere conferenze, insegnare, fare visita agli amici vecchi (la diaspora nigeriana li ha disseminati un po’ ovunque) e nuovi. Viaggia, Soyinka, anche per andare a recuperare in terra straniera le spoglie di un amico nigeriano che in esilio è morto, ma di cui è certo di interpretare la volontà quando decide di mettersi su strada per riportarlo a casa, poiché è lì che tutti vogliono essere sepolti.