Il riconoscimento della santità dei papi ha sempre avuto un forte significato magisteriale e politico. All’inizio dell’XI secolo erano comunemente considerati santi i martiri della vittoria sul paganesimo e quindi anche tutti i papi dei primi secoli dell’era cristiana. Gregorio VII, invece, legò in maniera più specifica la santità del pontefice ai «meriti di Pietro» indipendentemente da chi ne fosse il rappresentante. La scelta di riconoscere la sacralità della figura del pontefice andava dunque di pari passo con la definizione del suo ruolo di primus inter pares nella Chiesa e, successivamente, di sovrano nella cristianità medievale. Di conseguenza, si sceglieva anche di normare il potere di canonizzazione attribuendolo al solo papa secondo una pratica che sarà istituzionalizzata nell’età tridentina con la creazione di un’apposita congregazione. Una vivace stagione di beatificazioni si verificherà quando la Chiesa dovrà fare i conti con il giacobinismo e con nuove figure di papi-martiri come Pio VII, fatto prigioniero da Napoleone. La lotta al modernismo verrà celebrata nel Novecento con la canonizzazione di Pio X, oggi punto di riferimento dei seguaci di mons. Lefebvre. Pio IX, il «prigioniero del Vaticano», sarà proclamato beato nel 2000 insieme a Giovanni XXIII, ma siamo ormai nella fase avanzata dell’età contemporanea, quella della «fabbrica dei santi» di Wojtyla. In mezzo, c’è stato il Concilio Vaticano II, concluso con una profonda spaccatura, che Giovanni Paolo II ha cercato di ricomporre durante i suoi ventisette anni di pontificato. Si spiega così la decisione di beatificare Roncalli, insieme a papa Mastai Ferretti: una decisione che ci dice molto su come il magistero abbia letto e applicato il Vaticano II nell’ottica di una sua normalizzazione.

La polemica contro coloro che avevano identificato nel Concilio un nuovo inizio (per esempio, i teologi della liberazione) ha caratterizzato gli ultimi cinquant’anni; una storia combattuta a colpi di commissariamenti e di processi, nella quale al percorso di ricezione conciliare si è accompagnato quello dell’«ermeneutica», ovvero della comprensione di quell’evento in sede storica (e di indirizzo complessivo). Nell’ultimo periodo, in particolare, la Santa Sede ha incoraggiato il punto di vista dei detrattori del partito conciliare, anche avallando quella riconciliazione con gli scismatici di San Pio X portata avanti (o quasi) da Benedetto XVI. A farne le spese sono state, da un lato, le riforme che il Concilio aveva imbastito e che i suoi successori hanno invece deciso di accantonare (la decentralizzazione del potere curiale, l’inserimento del laicato nel governo della Chiesa, ecc), dall’altro, lo spirito del dialogo con la società pluralista che aveva caratterizzato l’assise ecumenica.

Che significato attribuire allora a questa duplice canonizzazione? Non c’è dubbio che la decisione di Bergoglio di portare a termine il processo di Giovanni XXIII, fermo da anni e dispensato dal riconoscimento di un secondo miracolo, si inserisca in un disegno che vuole superare lo scontro e ridare forza alla memoria del Vaticano II e allo spirito del dialogo. D’altra parte, l’entusiasmo con cui è stata celebrata la rapidissima beatificazione di Wojtyla nel 2011 imponeva di chiudere in fretta questa pratica. Resta il fatto però che la scelta del tandem sembra replicare lo schema di uno colpo al cerchio e di uno alla botte, dando forza ai teorici della continuità di vedute tra i due pontefici (ribadita anche dal card. Amato). Più in generale, bisogna inserire questa scelta nella politica della canonizzazione dei papi, una pratica con alle spalle una storia di celebrazione del potere romano e che nel tempo della società di massa ha contribuito a identificare la figura carismatica del pontefice con la Chiesa: niente di più lontano dal Concilio.

Dialogando con Eugenio Scalfari, Francesco ha mostrato una profonda fiducia nella possibilità di riprendere il dialogo con la cultura moderna iniziato dal Vaticano II e tutti i gesti più importanti del suo pontificato spingono in questa direzione.