«C’è stato un momento (…) in cui mi sono ritrovato al Whitney e il vedermi attribuito un qualche pubblico riconoscimento si è rivelata una vera emozione. Questa circostanza ha spalancato porte a destra e a manca: la gente voleva acquistare qualunque cosa avesse sopra la mia firma. Era insieme fastidioso, importuno e disorientante». I ricordi di David Wojnarowicz (scomparso nel 1992) vanno riferiti a un biennio preciso, quello cominciato coll’ ’84, quando la sua carriera di artista figurativo si era avviata da appena un lustro: intervallo fortunato durante il quale il nome del giovane del New Jersey venne dapprima incluso nella mostra Modern Masks, inaugurata a dicembre presso il museo newyorkese, e poi nella Biennale ospitata nella stessa sede a distanza di quattro mesi. Si trattò, soprattutto nel secondo caso, di uno snodo per la sua parabola creativa, in grado di costruirgli attorno un contesto ampio. Citando l’elogio di John Russell, consegnato in quelle settimane al New York Times, l’ufficialissima kermesse – giunta alla sua settima edizione – «rivolgeva» infatti «un’attenzione doverosa all’East Village» e alla sua produzione culturale. Nel far questo associava le istanze di Nan Goldin, Kenny Scharf, Julie Ault e Jenny Holzer alle proposte consacrate di un Jasper Johns o di un Donald Judd; e in una selezione meritoria faceva spazio nel canone americano alle qualità espressive di quell’ambiente e di una leva coesa sul piano generazionale: la preferenza per l’ «effusione» rispetto al «concetto», per la «resa bozzata» nei confronti del «virtuosismo tecnico», una certa preminenza della «sensibilità» sull’«intelletto», del «diretto» sul «verboso».
Wojnarowicz torna al Whitney, fino al 30/9, con la prima monografica: un progetto in cantiere da ormai un decennio, aperto al pubblico grazie all’ostinazione dei curatori (David Kiehl e David Breslin) e alla perseveranza di Adam D. Weinberg, il direttore che – alla guida dell’istituzione dal 2003 – ne ha seguito il trasferimento da Madison Avenue verso il Lower West Side.
Una simile travagliata gestazione spiega in fondo perché l’iniziativa viva un qualche sfasamento rispetto alla crescente fortuna critica toccata in sorte all’artista, dall’uscita della monumentale biografia composta da Cynthia Carr nel 2012 alla campagna d’opinione scatenatasi nel 2010 attorno alla censura di un suo video (A Fire in My Belly), escluso dalla mostra Hide/Seek alla National Portrait Gallery di Washington; tuttavia la congiuntura nella quale si è arrivati a tagliare il nastro non è per questo meno eloquente.
L’appuntamento sancisce infatti un palese protagonismo riconosciuto a Wojnarowicz nel corso dell’ultima stagione espositiva di Manhattan. In autunno, suoi pezzi erano collocati in punti chiave all’interno di Aids at Home al Museum of History of New York, in perfetta sintonia – per grazia intima, dolente – con le opere raccolte in quegli spazi; allo stesso tempo la sua presenza campeggiava, eroica e carismatica, in rassegne sul tipo di Screaming in the Streets. AIDS, Art, Activism (alla Crampart Gallery), quasi un corollario di quell’altro evento. Analogamente le azioni condotte dalle fila di Act Up, spettacolari e rigorose nell’uso ‘sociale’ del suo compromesso stato di salute (l’artista ricevette una diagnosi di sieropositività nel 1988, dopo una sequenza inesorabile di perdite dolorose fra amici e amanti), sono l’ovvio, necessario background per il percorso allestito in maggio alla LaMama Gallery da Kyle Croft e Asher Mones col titolo di Cell Count, imperniato sulla criminalizzazione dei malati di Aids e la cultura visiva gemmata attorno al tema; mentre nel corso di luglio importanti focus relativi alla sua oeuvre hanno occupato, sulla ventiduesima, la PPOW Gallery (che ne gestisce l’estate) e la Fales Library della New York University, in alto sopra Washington Square.
Del resto, se si torna alla primavera, il volto di Wojnarowicz riemergeva continuamente, magro e asimmetrico nella forma mobile di un’ossessione amorosa, fra i molti scatti riuniti alla Morgan Library per la retrospettiva su Peter Hujar, fotografo che fu – dall’inizio del 1981 – suo compagno e poi mentore, «amico (…) fratello (…) padre (…) legame emozionale col mondo» (fino alla morte nell’ ’87 per conseguenze dell’infezione da HIV).
Alcuni degli struggenti bianchi e neri eseguiti dal più navigato fra i due per catturare il viso del ragazzo desiderato e rispettato tornano anche al Whitney, in dialogo con i ritratti su pellicola, carta o masonite offerti al primo dal secondo: così, immagini tiepide come David in Dianne B. Fashion Shoot II del 1983 fanno da spartiacque per un’antologica mirante a ricostruire la «fase matura» dell’artista, decisosi già nel ’79 ad abbandonare un passato da poeta. Considerato un simile esordio, non stupisce che ad aprire l’infilata di stanze sia la serie dell’Arthur Rimbaud in New York, apparsa sulle pagine del «Soho News», una sequenza in cui presenze fisse del suo entourage quotidiano si prestarono a ‘interpretare’ il profilo adolescente del padre di Illuminations con una maschera in cartone, di fronte a luoghi cari all’underground cittadino; fra questi i piers, raduno preferenziale del cruising sadomaso e gay, eletti anche a «zona di creatività autonoma» dalla ‘scena’ insediata nei quartieri meridionali di Manhattan. Lo stesso Wojnarowicz – il quale entrò dal ’79 nei grandi capannoni abbandonati sull’Hudson – vi lasciò memorie del proprio transito; e non a caso la sala seguente si sofferma su questo periodo, in cui sistematico si fece l’impiego di matrici normografiche al servizio di un linguaggio simbolico ricorrente (la casa in fiamme, il cane randagio, ecc.). Siamo di fronte a un universo che dialoga coi mondi figurativi di Keith Haring o di Basquiat, oltre che per le urgenze in comune, per l’adozione di un alfabeto privato, fatto di icone e simboli ripetuti. Stupisce tuttavia che nel procedere cronologico della mostra si sia preferito raccontarne le prove ‘da cavalletto’ (acrilici su supporti diversi, collages) o comunque bidimensionali (foto, video), lasciando maggiormente in ombra il feroce gusto di Wojnarowicz per l’istallazione tanto quanto la mai disertata vena letteraria (la raccolta Close to the knives: a Memoir of Disintegration, apparsa nel 1991, resta fra le voci limpide di un’epoca); e anzi, il fatto che taccuini di parole e disegni compaiano solo nell’introibo trasmette un segnale ambiguo al riguardo della sua produzione scritta, rischiando di farla apparire come fase di studio. Al contrario essa fu parte integrante di una pratica in cui l’engagement si impose fra le necessità ineludibili di un catalogo personale, risolto al di là dei confini delle ‘arti belle’ in un complesso meticciato con la militanza e l’attivismo. Se dunque al Whitney mancano gli ephemera, le scorie, le impurità connesse a un simile impegno, resta d’altronde chiara la struttura del quadrato semiotico che strutturò l’ispirazione di Wojnarowicz, serrata fra le coppie dicotomiche di pubblico/privato e di macroscopico/microscopico: per questo appare tanto più opportuno che nella tromba della scala in cemento fra i diversi piani del museo abbia fatto la sua apparizione – dai depositi della collezione permanente – una catena di lampadine di Félix González-Torres, per molti versi legato alle medesime problematiche concettuali. È infatti significativo che fra i pannelli dell’allestimento del Whitney si ricordi quanto la bellezza fosse fra le sue preoccupazioni impellenti: anche questo un caveat condiviso dal collega cubano, aduso a disegnare il corpo ammalato del suo amore perduto radunando Baci Perugina o caramelle colorate.