In quel libro imprescindibile per comprendere la transizione post-sovietica che è The Future of Nostalgia, Svetlana Boym distingueva due varianti di nostalgia, l’una «restauratrice», mirante a un’impossibile ricostruzione della «casa» (nostos) perduta, l’altra «riflessiva», orientata più a un vagheggiamento dolente (algia) del passato che a una sua improbabile resurrezione.

Nel leggere il reportage narrativo di Witold Szablowski Orsi danzanti Storie di nostalgici della vita sotto il comunismo (uscito per Keller nella bella traduzione di Leonardo Masi, pp. 216, € 18,00) capita spesso di chiedersi quale tipo di nostalgia vi prevalga, ovvero se i suoi protagonisti nutrano autentiche pulsioni revansciste, oppure non tendano piuttosto a idealizzare i tempi della loro giovinezza. Di certo sono individui sconfitti che, spinti ai margini dalle progressive sorti della Storia, vegetano in «riserve» appartate, dove il confronto quotidiano tra gioie passate e frustrazioni presenti ha assunto una valenza quasi allucinatoria. Con la pervicacia indagatrice di un segugio, l’autore «stana» questi nostalgici su un territorio che dalla Georgia va all’Estonia e all’Inghilterra e ne racconta le storie, con accenti di inesausta curiosità e caustico umorismo.

Riscatto dagli zingari

Alla base della struttura abilmente congegnata del libro c’è il raffronto tra la condizione nevrotica di coloro che, incapaci di adattarsi alla libertà che la democrazia avrebbe teoricamente donato loro, rimpiangono i tempi illiberali del comunismo, e uno dei casi più bizzarri e meno noti della transizione post-socialista: il riscatto degli «orsi danzanti» dal servaggio imposto loro dai rom bulgari. Da tempo immemorabile infatti gli zingari stanziati tra i Balcani e la Russia usano addomesticare gli orsi, convincendoli con le buone o le cattive a esibirsi in balletti, acrobazie o sketch di vario genere. Se in Bielorussia, a Smarhon’, nel Seicento esisteva addirittura un’«Accademia» destinata all’addestramento degli orsi, questa occupazione, specie in Bulgaria, era tornata in auge dopo la caduta del regime comunista, quando molti zingari si erano ritrovati senza lavoro. Finché con l’ingresso del paese nell’Unione Europea nel 2007 questa pratica è stata dichiarata illegale; una associazione animalista austriaca ha cominciato a «recuperare» gli orsi, inserendoli in un’apposita riserva dove vivono in una condizione di simil-libertà: il ritorno pieno ai bioritmi naturali è infatti impossibile. Tant’è vero che, se una repentina sensazione olfattiva risveglia in loro gli automatismi della cattività, gli orsi si rizzano sulle zampe posteriori, tornando inaspettatamente a danzare.

Indagando sul campo la singolare vicenda degli orsi bulgari nelle sue implicazioni zoologiche, economiche e sociali, Szablowski resta colpito da una analogia di fondo: neppure le popolazioni dell’Europa centro-orientale sembrano a aver beneficiato granché della libertà che, almeno in teoria, il passaggio alla democrazia avrebbe garantito. Non diversamente dagli ospiti plantigradi della riserva di Belitsa anche loro, di tanto in tanto, rimpiangono le tirannie dei loro dittatoriali «addomesticatori». Ma l’autore – nato nel 1980, non a caso contemporaneamente alla crisi del regime comunista polacco – è troppo accorto per sviluppare questa similitudine in modo pedestre; si limita a intervistare nella seconda parte del libro vari «nostalgici» accompagnando i loro racconti con i medesimi titoli utilizzati per i capitoli incentrati sugli orsi – già di per sé alquanto significativi: «ibernazione», «istinti», «castrazione».

Spetta dunque al lettore – sulla base di tali suggestioni e, forse, anche alla luce della propria esperienza personale in fatto di comunismo – stabilire se la metafora degli orsi danzanti si attagli alla minoranza russofona discriminata dal governo estone che nel 2007 ha protestato contro la rimozione del monumento al soldato dell’Armata Rossa dal centro di Tallinn, alle sorveglianti del museo dedicato a Stalin nella sua città natale di Gori, o agli albanesi chiamati a decidere del futuro dei circa settecentocinquantamila bunker che costellano tuttora il paesaggio del loro paese.

Orientalismo dei banditi

Innegabile resta la capacità di Szabłowski di accostarsi al tema della nostalgia per quelli che Rossana Rossanda definiva «i socialismi avvenuti» con un vivo senso del paradosso che gli permette di cogliere le incongruenze nelle affermazioni dei suoi interlocutori, evidenziando pregiudizi e assurdità più o meno flagranti. Così, ad esempio, gli attivisti di Belitsa amanti degli animali non si peritano di dissimulare il loro disprezzo nei confronti dei rom, mentre i contrabbandieri polacchi fanno sfoggio di «orientalismo» verso i doganieri ucraini che corrompono con fasci di banconote di piccolo taglio, convinti che di un pezzo solo da cinquanta euro «sarebbero meno contenti».

Ultimo in ordine di apparizione dei tanti reporter polacchi di talento apparsi negli ultimi anni, Szablowski è più ironico di Jacek Hugo-Bader, più scanzonato di Wojciech Tochman e meno introspettivo di Mariusz Szczygiel. E alla dimensione epica del capostipite di tutti, Ryszard Kapuscinski, contrappone un gusto per le micronarrazioni contraddittorie che ben si lascia riassumere dal grido di dolore di uno zingaro alla vista dei suoi orsi prelevati e portati via in gabbia dagli animalisti: «Per metterli in libertà li infilano dietro le sbarre».