Il Rinascimento italiano, francese, tedesco e fiammingo, le statue classiche greche e romane, la grande fotografia americana, da Walker Evans a Diane Arbus, e quella europea con Henri Cartier-Bresson e Mario Giacomelli, una religiosità ricca di romanticismo ma con venature cupe da est Europa. Gli scatti di Joel-Peter Witkin – in mostra al Pan di Napoli fino al 20 ottobre prossimo – miscelano un materiale complesso dove i corpi hanno una forza enigmatica. Sono presenze ambigue, transessuali, donne barbute o con un solo seno a causa del cancro, contorsionisti, persone con deformità o lesioni fisiche, anoressici, «prodigi di natura».
L’artista, però, non ha alcun intento surreale: «Il Surrealismo – spiega – aveva una sua validità all’epoca, un fondamento nei richiami alla psicoanalisi, ma io non aderisco alla sua poetica».

Witkin, da dove trae ispirazione per le sue fotografie?

I miei sono lavori realizzati in studio, mi riallaccio ai tableau vivant, alla tradizione medievale del memento mori. Nella storia dell’arte, spesso, veniva scritta

una spiegazione sotto l’immagine. In fotografia, anche se c’è un nome o un titolo, siamo lasciati soli, a indovinare che cosa stia succedendo.
Generalmente completo l’immagine con iscrizioni, anche se non necessariamente per ogni opera. Attraverso l’uso delle parole non voglio «chiarire» nulla, ma aumentare l’informazione visiva. Fondo l’iconografia cristiana con i miti pagani, elementi rinascimentali e barocchi. È come se avessero una disposizione multistrato, velluti, calici, teschi e poi corpi. Corpi statuari ma anche freaks, che richiamano i baracconi e le fiere che visitavo da bambino a Coney Island.

Nessuna tecnica digitale, stampa al bromuro d’argento, ogni scatto vive in una dimensione sospesa tra fotografia e pittura…

Ogni opera è il risultato di una complessa elaborazione in camera oscura. Eseguo una serie di passaggi manuali, lavoro molto sulla supe

rficie dei negativi con diverse tecniche come il graffio, utilizzo filtri, varie tipologie di ostacoli posti tra il supporto e l’ingranditore. Il momento decisivo non è ciò che è nella fotocamera, è quello che ci sarà sulla carta. Sono uno stampatore. Alla fine del processo, è come se le fotografie avessero una patina antica sulla superficie… Con questa manipolazione, ottengo i miei soggetti atemporali.

Immagini ironiche e disturbanti si miscelano a esplicite citazioni di autori come Velasquez o Arcimboldo. Fino agli omaggi a Lewis Caroll e Man Ray. Qual è il filo che lega la sua ricerca?

La grande arte è ricerca di verità, bontà e bellezza: è questo che secondo me ci definisce come esseri u

mani. Un itinerario costellato di estasi e abissi. L’arte attuale non ha scopo o significato, nei secoli passati l’artista non lavorava per il guadagno ma per indagare l’animo umano, trasformare a livello di coscienza una forma fisica in spirito e anima. Giotto, Goya, raccontavano un mondo di convinzioni e meraviglia. È un percorso che condivido.

Un immaginario che trae origine anche dalla sua storia familiare. Da dove nasce l’autoritratto in cui appare con un crocifisso tra gli occhi?

Mia nonna materna era di paesino vicino Napoli; da qui si imbarcò nel 1905 per gli Stati Uniti. Parlava

solo italiano e capiva il «bruccolino», cioè lo slang degli immigrati di Brooklyn. Mia madre era una donna single, per mantenerci lavorava in fabbrica, io e mio fratello gemello stavamo con la nonna. Ogni pomeriggio la ascoltavamo mentre recitava la litania delle preghiere con il rosario tra le mani. Un giorno le dissi: «Quando sarò grande lavorerò in fabbrica, sarò quello che crocefigge i Gesù Cristo del rosario»…. Mio padre, invece, era figlio di immigrati lituani di prima generazione e aveva un approccio radicalmente diverso alla vita, molto più cupo e drammatico.

Come ha cominciato il suo percorso come fotografo?

Sono stato nell’esercito statunitense

tra il 1961 e 1964. Ero fotografo di guerra, questo lavoro mi ha insegnato la disciplina, a fissare un focus e perseguirlo. Mi arruolai volontario per partire per il Vietnam, ma poi non ci sono mai andato.

Come nasce l’opera «The raft of George W. Bush», una rilettura ironica della «Zattera della Medusa» di Théodore Géricault?

Ho studiato a lungo la storia di quel disastro (il naufragio della fregata francese Méduse, avvenuto nel 1816 a causa della negligenze dei comandanti,

ndr). Ho scelto attori sosia dei personaggi che volevo rappresentare. Dick Cheney, il tipo di uomo «qualsiasi cosa succeda pur di avere successo», ritratto vestito da donna con gonna e reggiseno, come gli uomini codardi sul Titanic che si abbigliavano da sig

nore per essere salvati per primi. George Bush che tocca il seno di Condi Rice, la più potente donna al mondo in quel tempo, e poi ci sono Colin Powell, quello che ha mentito alle Nazioni unite e Donald Rumsfeld. Anche nella finzione accadono cose reali. Per rappresentare il presidente e sua madre Barbara, ho ingaggiato professionisti di Los Angeles. In quel disastro ci furono solo pochi superstiti, anche l’amministrazione Bush è stata una catastrofe.

Qual è il suo rapporto con l’Italia?

Terminata l’esperienza nell’esercito sono venuto in Italia. Sono stato a Napoli, ho cercato di assorb

irne tutta la vitalità, la gioia di vivere. Quando sono tornato a New York ero un’altra persona ed ero pronto a iniziare il mio lavoro. Apprezzo moltissimo il lavoro

di Federico Fellini, la sua attrazione per il paranormale che lo ha portato fino ai confini del mitologico. Mi piace molto la magia del vostro cinema, che è diverso da quello spagnolo. Gli spagnoli sono crudeli, gli italiani più romantici.