Sabato, centro di Tunisi. È una mattina come le altre in avenue Bourguiba, il lungo viale alberato simbolo della capitale e non solo. Nel 2011 fu uno dei luoghi chiave per la cacciata di Zine El-Abidine Ben Ali con le imponenti manifestazioni sotto il ministero dell’Interno; oggi rimane uno degli indirizzi preferiti per indire manifestazioni a sfondo politico.

Una è puntualmente arrivata venerdì 17 dicembre, per sostenere in occasione dell’anniversario dell’inizio della rivoluzione del 2011 le decisioni del presidente della Repubblica Kais Saied. Ovvero mantenere il parlamento congelato e di fatto sfiduciare la classe politica che ha governato il paese per più di dieci anni. Sabato però, nel centro di Tunisi, la vita è ripresa normalmente: i café si riempiono di voci e l’avenue Bourguiba di passanti.

Verso le 11 di mattina, sulle scalinate che portano al Teatro municipale, alcune donne srotolano lunghi striscioni e dei cartelli. La reazione di chi si ferma a osservare anche solo per un momento è una: «Che tragedia».

LA TRAGEDIA sono gli scomparsi in mare. Giovani che dal 2011 sono partiti attraverso il Mediterraneo e di cui si sono perse le tracce. Alcune famiglie hanno recuperato i corpi dei loro cari, altre stanno chiedendo verità da più di dieci anni.

Sabato scorso madri, padri, sorelle e fratelli sono venuti nel centro di Tunisi per manifestare la loro vicinanza e chiedere verità per Wissem Ben Abdellatif, il ragazzo di 26 anni morto nel reparto psichiatrico del San Camillo di Roma in circostanze ancora da chiarire il 28 novembre scorso.

Come a Tunisi, altri sit in si sono svolti in altre parti d’Europa indetti dal movimento Abolish Frontex per la Giornata internazionale per i diritti dei migranti, in Italia l’attenzione è stata posta sul 26enne originario di Kebili, nel sud della Tunisia.

«PERSONALMENTE conosco 506 famiglie che stanno chiedendo ancora verità per i loro figli», sono le parole di Jalila Taamallah, mamma di Mahdi e Hedi Khenissi, partiti in Italia il 30 novembre 2019 e, stando alle ricostruzioni ufficiali, morti lo stesso giorno. «Io ho iniziato la lotta due anni fa. In Tunisia non ho mai trovato il sostegno del governo, che fosse per il riconoscimento dei corpi o per il rimpatrio. Non ci ha mai ascoltato, il ministero degli affari esteri in Tunisia mi ha chiesto 6mila euro per rimpatriare i miei figli, dopo altri 4.600».

Con Jalila c’è sua figlia di 16 anni, Nourhene, anche lei in prima linea sul fronte della lotta. Ci sono anche Fatma Kasraoui, presidente dell’Associazione delle madri dei migranti scomparsi, Hajer Ayachi, Awatef Dawdi, Samia Jabloun e Latifa Ben Torkia. Tutti volti chiari e ben definiti di chi vuole risposte chiare dai governi di Tunisi e Roma, i quali si dividono le responsabilità per le migliaia di persone di cui non si sa più nulla.

Jalila Taamallah ha parlato anche con Henda Ben Ali, la mamma di Wissem Ben Abdellatif: «Io ho perso due figli, so cosa si prova. So esattamente i momenti che abbiamo vissuto entrambe e so anche in che situazione si trova la famiglia. Mi ha detto che voleva giustizia per suo figlio».

GIUSTIZIA che avrà ancora bisogno di tempo in attesa di nuove indagini tossicologiche. Nel frattempo emergono nuovi particolari inquietanti: «Da alcuni atti del procedimento che ho avuto modo di consultare emerge che la morte di Wissem Ben Abdellatif poteva essere impedita. Il 24 novembre, mentre il giovane era ricoverato e legato in stato di contenzione presso l’Ospedale Grassi di Ostia, il Giudice di Pace di Siracusa, su ricorso del legale del giovane tunisino, sospendeva l’esecutività del decreto di respingimento e del provvedimento di trattenimento presso il Cpr di Ponte Galeria», è il comunicato dell’avvocato di Wissem Francesco Romeo.

Per Majdi Karbai, deputato tunisino che per primo ha ricevuto la chiamata della mamma del ragazzo, questa notizia non è nuova: «Come al solito c’è un ritardo nelle comunicazioni, mi era già capitato di ricevere un’altra segnalazione. Se ci fosse stata questa notizia Wissem poteva essere più tranquillo e probabilmente cambiare il suo destino».

Un destino che per altri familiari è già segnato, come sottolinea Jalila Taamallah: «Fa male al cuore quando trovi delle madri in lotta da 11 anni e non sanno la verità. Ci sono delle madri e dei padri che sono morti senza sapere cosa sia successo ai propri figli».