Ora che è rimasto senza il suo angelo (custode) de Il cielo sopra Berlino, uno dei suoi film più famosi (il grande attore tedesco Otto Sander che lo interpretava è scomparso qualche mese fa), Wim Wenders può recidere il forte legame anche simbolico che ha con la metropoli tedesca, il feeling privilegiato con la città culturale e intellettuale per eccellenza (lui è nato a Düsseldorf). Almeno questo è quello che lui (forse involontariamente) ha fatto credere e che molti suoi fans amano credere. Perché in realtà l’autore di Paris, Texas nel corso dell’affollato incontro a Napoli a Villa Pignatelli – Casa della fotografia dove è allestita (fino al 17 novembre) la sua mostra fotografica Appunti di viaggio. Armenia Giappone Germania (la prima tappa italiana), ha confermato di essere sostanzialmente un intellettuale ‘apolide’, un autore che ritagliandosi una cifra stilistica cinematografica costruita come pochi nella forma e nella narrazione dello spazio e del tempo, le due componenti strutturali del cinema, ha trovato nella fotografia il prolungamento ideale per esplicitare la sua vocazione di “cittadino del mondo”, di viaggiatore oltre lo spazio e il tempo.

E lo ha fatto proprio schivando gli insidiosi colpi mediatici, respingendo l’assalto dei famelici cronisti locali che nella solita logica del ‘ricatto emotivo’ innescato da una delle città più belle e particolari del mondo ma con vocazione autoreferenziale e autocelebrativa, hanno cercato in tutti i modi di ‘estorcergli’ qualche dichiarazione d’amore, di disponibilità e di progettualità (con le solite domande “Le piace Napoli?”, “Girerebbe un film a Napoli?” per poi magari fare il titolo “Il cielo sopra Napoli”). Wenders ha tagliato corto rispondendo come se si trovasse in qualsiasi altro posto del mondo “Certo che farei un film a Napoli ma ci vogliono i soldi”. Non per questo però si è sottratto al caloroso bagno di folla firmando autografi e concedendosi scherzosamente al fuoco di fila di fotografi professionisti e di giovani armati di smartphone e tablet “Complimenti vedo che a Napoli siete tutti fotografi”.

Oltre tutto il maestro del “Nuovo cinema tedesco” Napoli la conosce poco, non si è mai fermato a lungo e anche questa volta come la precedente del 2006 quando ricevette il “Premium Extraordinarium” degli Annali dell’Architettura, ha fatto solo un blitz accompagnato dalla moglie artista Donata. Quanto gli è bastato per fare un giro e vedere l’allestimento della sua mostra, 20 scatti tratti dalla sua più recente pubblicazione Places Strange and Quite, curata da Adriana Rispoli, promossa e organizzata dalla Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico e per il Polo Museale della città di Napoli con Incontri Internazionali d’Arte e Civita. L’incontro con il pubblico si è trasformato in una piccola masterclass, una lezione di cinema e fotografia nel corso della quale riecheggiavano i concetti e le intuizioni teoriche del John Berger di Sul guardare, della Susan Sontag di Sulla fotografia, del Roland Barthes di La camera chiara, del Deleuze di L’immagine-tempo e L’immagine-movimento e dello stesso Wenders di L’atto di vedere.

Il tempo filmico e il tempo fotografico appunto. Chi ha dimestichezza con il cronòtopo wendersiano che ha assunto la forma di un lungo viaggio che ha portato il regista di volta in volta “nel corso del tempo” dalle “città di Alice” a Berlino, da Lisbona al Texas, da Cuba a Palermo a Los Angeles, qui si trova al cospetto di immagini fotografiche enunciative/evocative, di scatti significanti che restituiscono una dimensione spazio-temporale focalizzata sui paesaggi, gli squarci, i luoghi dell’Armenia, del Giappone e della Germania. Le foto – accompagnate da brevi appunti di Wenders che introducono nell’intimo del suo pensiero al momento dello scatto – del muro del vecchio quartiere ebraico di Berlino devastato dai fori dei proiettili e sostituito dopo vent’anni da un negozio di souvenir, della ruota panoramica, del monumentale alfabeto scultoreo e di un distributore di benzina in Armenia, del mare di Naoshima e della cittadina di Onomichi in Giappone e ancora di una piazza piena di macerie, di una radura nella foresta, di un cielo nuvoloso, di una scritta su un muro esaltano come scrive nella presentazione della mostra il Direttore di Villa Pignatelli Denise Pagano “la sensibilità di Wenders all’ “ascolto” in scenari talvolta desolati e in paesaggi spesso solitari, il suo modo di guardare il mondo superando la semplice dimensione visuale”. E la curatrice Adriana Rispoli scrive “Ammettendo l’impossibilità della rappresentazione della realtà, le fotografie di Wenders sono nell’istante dello scatto il tentativo di una sintesi in frammenti di una realtà incommensurabile. […] Il tema del paesaggio caro all’artista s’intreccia indissolubilmente con quello della memoria, dell’attesa e dell’assenza, declinati attraverso immagini che emanano una sensazione di nostalgia e di desolazione, ma anche di naturale calma e bellezza”.

E l’autore descrive il complesso percorso che ha partorito alcuni scatti: “L’Armenia è un paese piccolo e povero ma ha un legame forte con la cultura, soprattutto con “l’alfabeto”. Visitando la capitale Yerevan, ho potuto conoscere la biblioteca nazionale che è l’attrazione principale, ha un grande tesoro, scritti del 3° secolo e migliaia di volumi, poi sono partito per il mio viaggio verso il paese come faccio di solito senza guida, senza piantine alla scoperta del luogo. In questo paesaggio ho trovato posti e luoghi e l’alfabeto armeno di grandi dimensioni situato in un deserto, ho scoperto che la gente non sapeva che la ruota panoramica alla quale ho dedicato una foto della mostra è un relitto dell’occupazione sovietica. A volte viaggiando ho la sensazione che non sono io alla ricerca dei posti, dei monumenti ma sono loro che vengono a cercarmi. E forse mi sono convinto che ho un certo senso per i luoghi che mi aiuta a trovare dei luoghi particolari, dimenticati rispetto ad altri”.

Si sofferma a lungo sul rapporto tra cinema e fotografia : “Il legame che fa nascere un film è molto complesso, un punto d’incontro tra la storia da raccontare e il luogo, nel cinema come regista posso lavorare solo quando trovo questo legame, nella fotografia è diverso. Quando arrivo in un luogo non ho una storia in testa, anzi cerco di essere vuoto per farmi trovare dal luogo. Quello che mi affascina dei vari luoghi è ciò che non si vede, mi attirano le tracce del passato non i personaggi, preferisco vedere luoghi abbandonati dove si vede la storia, dove ci sono stati emozioni, desideri che però il tempo ha cancellato, è come se il luogo si mettesse a raccontare da solo, spesso aspetto che la gente va via o si fa buio. In fotografia preferisco l’analogico, la vecchia macchina fotografica con rollino e negativo non per nostalgia, sono più di 20 anni che uso il digitale nel cinema e recentemente ho sperimentato anche il 3D, ma per la foto si tratta di un altro mestiere, fotografo luoghi, paesaggi con persone e la vecchia macchina è più funzionale, cerco di registrare quello che vedo e sento e spero che il luogo racconti la sua storia, succede che il luogo crei un dialogo con vecchie presenze, quando lascio questi luoghi non so se sono riuscito a catturare ciò che volevo.

Per l’Armenia ho aspettato un mese prima di sviluppare il negativo, non voglio sapere se la foto è riuscita o meno, voglio solo essere presente, col digitale si può verificare in tempo reale l’esito della foto e questo per me interrompe il dialogo che creo. Il formato 16/9 è più ricorrente nel cinema col cinemascope, per la fotografia lo scelgo per restituire uno sguardo panoramico, per cogliere l’orizzonte più spettacolare.

Il nesso tra il mio cinema e la fotografia può essere il silenzio, i luoghi. Unisco il fotografo e il cineasta, forse per il fatto che da sempre volevo fare il pittore, sono stato influenzato da alcuni pittori in particolare Vermeer che non conoscevo fino a quando non l’ho scoperto da giovane ad Amsterdam, sono stato folgorato dai suoi quadri, ho capito cosa vuol dire l’occhio, lo sguardo del pittore, da certe sensazioni che ho provato è nato il desiderio di diventare pittore, purtroppo non ci sono riuscito ma sono felice lo stesso”.

E ancora : “Mi piace il concetto del non-luogo, molti luoghi si presentano come non-luoghi, che esprimono un passato, quei distributori di benzina, quei supermarket potrebbero essere in qualsiasi posto, il senso del luogo è in via d’estinzione, non lo usiamo più, una volta serviva per sopravvivere, oggi è stato sostituito dalla guida, dalla carta geografica per sapere dove si vive, conoscere la luce, il tempo che varia da paese a paese, da luogo a luogo, i non-luoghi per un fotografo sono più interessanti per scoprire la storia”.