Stoner incanta ancora. Altrettanto il suo creatore, il texano John E. Williams (1922-1994), scrittore colto e versatile, dalla vita ombreggiata e ora eclissata dal suo stesso Stoner, al punto che si va dimenticando il suo nome (è importante aggiungere quella «E.» di distinzione da altri famosi omonimi), per riconoscerlo ormai solo come l’autore del suo protagonista più celebre; l’altro potrebbe essere Ottaviano Augusto (Augustus, 1973, co-vincitore, con John Barth, di un National Book Award), ma sarebbe una presupponenza più ambiziosa.
Personaggio sfuggente, ombra vacillante nel panorama letterario del secondo Novecento, non collocabile in alcun trend narrativo dell’ultimo canone americano (forse perché la vena è stata più sovvertitrice: «postmoderna»?), Williams è autore di quattro romanzi, di cui tre di immediato successo al loro apparire tra il 1960 e il 1972, per precipitare quasi subito, e di volta in volta, nel sottobosco del mainstream. Eppure, egli continua a tornare a galla, come notava Peter Cameron alla prima comparsa di Stoner in Italia, col ridestato stupore di fugaci ‘riscoperte’ generazionali.
È l’editore Fazi che, negli ultimi tempi, dopo aver avuto il merito di rilanciarlo, mantiene fermo il proposto di ricordarci il suo caso singolarissimo, e quindi torna a far circolare in libreria due novità non di Stoner/l’autore, cannibalizzato dalla sua creatura, ma su Stoner: La saggezza di Stoner, a cura di Barbara Carnevali, con contributi di Axel Honneth, Eva Illouz, Julika Griem e Frieder Vogelmann (pp. 132, € 16,00) e L’uomo che scrisse il romanzo perfetto Ritratto di John Williams, autore di Stoner di Charles J. Shields (traduzione di Nazzareno Mataldi e Franca di Muzio, pp. 323, € 18,50). L’uno diretto, a dirla in breve, a un’indagine del messaggio sociologico, mediatico, epistemico, rifrangentesi sull’oggi, grazie a un successo; l’altro a un bel ritratto dell’«uomo» attraverso le tappe della sua scrittura. Le due letture si compensano.
La domanda di fondo che pone La saggezza di Stoner è come mai quest’uomo-vessillo, rassegnato, quasi sadomasochisticamente inerte, alienato e alienante, della mediocritas americana anni cinquanta nei suoi aspetti più deprimenti e sofferenti, ci incuriosisce tanto negli amari anni duemila? E perché l’affinità con l’uomo di oggi, con «uno di noi», si sia «imposta all’attenzione del pubblico solo negli ultimi dieci anni»? E ancora, «cosa ci dice» questo fenomeno «sullo stato della nostra società, sul nostro tempo»? Le varie risposte, puntanti su una insolvibile ‘ambivalenza’ dell’uomo Stoner, vengono da un gruppo di filosofi/sociologi di Francoforte, che vi riconoscono un «modello di un certo atteggiamento nei confronti del mondo».
La biografia di Shields, un esperto del genere – dopo le vite di Kurt Vonnegut e Harper Lee – si basa su ‘carte’ emerse dagli archivi dell’Università dell’Arkansas, e legge la vita di Williams come una lotta frustrante per un riconoscimento pieno della sua arte in tempi di giganti già affermati o esordienti, e difficilmente scaturiti da un ceto umile e duro, legato alla terra («Che avesse sangue indiano?») tipico di certe sacche interne degli US. Una nascita che non aiutò la fiducia in se stesso di Williams.
Con l’handicap delle sue origini contadine, molti misteri sono forse racchiusi negli esordi letterari di Williams, di cui pochi parlano ma che sembrano anticipare il virus (e il magma interiore) che condizionerà la sua carriera. Che nelle soste fra un’offensiva aerea e un’altra, la guerra (la Seconda) lasci al milite (John E. Williams) spazio per la scrittura di un romanzo può suonare solo strano o esorcizzante: c’è da vedervi un inconsapevole atto salvifico, un modo per rimettere i piedi a terra e ingannare il fato provando a eternare il proprio nome in un qualcosa che idealmente resti. Questo (che non accade mai a Stoner, figura a mio parere ‘cristologica’, o alla Bartleby) deve essere successo a John Williams, quando nel 1942-1945 era di servizio sul fronte asiatico, da dove tornò (vivo) con un manoscritto consegnato alle stampe nel ’48: Nulla, solo la notte. Era il suo primo romanzo e forse, dal punto di vista tecnico, il suo romanzo più interessante, oniricamente joyciano. Anch’esso, e più dei successivi, per lungo tempo archiviato.