I romanzi «storici» ispirati a Roma antica, e soprattutto all’età imperiale, sono ormai tradizione. Come tappe cruciali del genere, pur diverse tra loro, si ricordano Quo vadis? (1894), Io, Claudio (1934) e Le memorie di Adriano (1951). Poi il cinema e le serie televisive hanno imposto strumenti diversi, non differenti intenzioni. Su questa scia sta un romanzo su Augusto pubblicato nel 1972 e uscito in Italia qualche anno fa, che suscitò allora dibattiti tra storici e letterati. Il libro torna ora, con un nuovo editore, nuova veste, e nuova traduzione (John E. Williams, Augustus, traduzione di Stefano Tummolini, Fazi «Le strade», pp. 409, € 18,00). Sensato tornare a parlarne, se è l’ora di guardare ai «derivati» del mondo antico, dal fumetto al film, dal romanzo al videogame.
Williams era professore di scrittura creativa, e questo determina il suo trattamento della materia. Le fonti antiche non sono usate come documenti valutati secondo storicità, ma come materiale di base utilizzato secondo la potenzialità narrativa. Così faceva anche Plutarco, in fondo. E quindi, se la tradizione riporta due versioni per la morte di Salvidieno Rufo, accusato di cospirazione e cacciato dalla cerchia degli «amici» di Ottaviano, l’autore del romanzo sceglie il suicidio, perché soluzione più drammatica. Osservava Luciano Canfora, circa la precedente uscita del romanzo, che è legge di questo genere letterario oscillare tra «lo scrupolo nel non forzare i dati e l’invenzione più o meno libera di dettagli, episodi, parole dei protagonisti». Donde riscritture e scostamenti rispetto a «ciò che veramente accadde» (e a ciò che effettivamente sappiamo), integrazioni, rielaborazioni per esigenze di scrittura: e quindi qualche occasione perduta, qualche esagerazione, qualche errore. Nel romanzo, il racconto è affidato a voci «interne», attraverso fonti fittizie (lettere, diari, memorie), che consentono di andare oltre l’evidenza disponibile e di ritrovare il punto di vista dei protagonisti, prima che si sapesse l’esito degli eventi. Il lettore quindi è rassicurato nella propria onniscienza, legge di Cicerone che studia come liberarsi del ragazzetto (Ottaviano), ma sa come finì.
La scelta di inventare le «fonti» suscita reazioni differenti a seconda del grado di familiarità con le fonti vere. Il lettore incontra le (finte) memorie di Agrippa, che narrano la storia ufficiale, la vulgata di regime, e anche altre voci, come Mecenate, che servono da controcanto. Gli intrighi per la successione al principe formano un nodo narrativo importante: l’intera seconda parte del libro è centrata su Giulia (con un diario/monologo che sarebbe difficile immaginare in latino…). Le avventure e gli adulteri della donna e le difficili relazioni con il padre hanno un certo spazio, come pura fiction. Si sente la mancanza delle memorie di Livia (solo qualche cupa lettera). Sullo scrupolo filologico è giusto che prevalga il romanzesco. Pure, restano problemi, e non solo per gli anacronismi (i rapporti di informatori che sembrano quelli delle investigazioni matrimoniali), ma per il taglio narrativo. Le finte lettere e le finte memorie, che dovrebbero svelare i lati della politica romana «ignoti ai più» (ancora Plutarco), sono quasi sempre troppo esplicite, troppo didascaliche: come certe battute a teatro, quando due personaggi dialogano su ciò che sanno benissimo, e il tutto serve per informare gli spettatori circa qualche antefatto… Per rendere il gioco più intrigante, fra i testi immaginari ne sono incastrati alcuni «veri» (come il racconto della morte di Cicerone, che si legge in un frammento di Livio), o ricostruiti (come il senatoconsulto sulla guerra di Modena, la cui bozza si legge in una delle Filippiche di Cicerone). E solo un occhio esperto nota la sutura…
Ma oltre alle gesta, il racconto ha bisogno soprattutto delle azioni ordinarie, delle parole, delle battute che rivelano il carattere dei protagonisti (direbbe Plutarco), meglio di una battaglia con migliaia di morti. Per questi materiali, Williams ha attinto senza fatica a Svetonio, che all’uso suo pettegolo abbonda nella Vita di Augusto di dettagli, psicologismi e piccinerie, ottima materia per uno sceneggiatore. Niente «critica delle fonti», bensì ricerca di quanto meglio contribuisce al carattere del personaggio. Anche il monologo di Augusto morente viene di là: uno sviluppo che ricorda il cinema e ancor più il «grande» romanzo, ma è la parte che più consapevolmente ricorda la Yourcenar, senza riproporne la pensosa profondità.
La traduzione appare scorrevole, con poche sviste (Digentia, il fiume caro a Orazio, oggi Licenza, è femminile), qualche incongruenza (i toponimi: o tutti anticati o tutti moderni; perché «Beirut» e non «Berito»?) e qualche nodo insoluto («Signore mio» non è allocuzione italiana, qualunque forma inglese sottenda. Domine, certo, in latino…). In conclusione, il libro ha dei pregi, ma forse manca qualcosa: nel cercare di scavare la psiche dei potenti antichi l’autore voleva esser un Tacito, poteva esser un Plutarco, ma è riuscito uno Svetonio.