«C’erano tre isole: l’infanzia, la giovinezza e l’età adulta, e io ero alla ricerca di mio padre in ognuna di queste: così, con questa dichiarazione favolistica, si chiude il primo capitolo – sognante, al tempo stesso realistico e riferito a atmosfere irreali – del romanzo dello scrittore irlandese William Wall, Il turno di Grace (traduzione di Adele D’Arcangelo, Nutrimenti, pp. 208, € 17,00). Fiabesco fin dall’incipit – «Tempo fa avevo due sorelle e vivevamo su un’isola» – il romanzo rimanda, al di là dell’ovvio topos letterario, a uno dei racconti migliori di D.H. Lawrence, «L’uomo che amava le isole», descritto dalla critica come «una favola moderna»: è la storia di un uomo che possiede tre isole diverse, e in esse vive non tanto cercandovi rifugio e isolamento, quanto lo scambio sofferto con un contesto nel quale vivere in cinetica simbiosi.

Lo stesso accade nel romanzo di Wall, che racconta le vicende di una famiglia senza un nucleo individuabile, portata ad allargarsi per implosione, dove vengono inscenati, con il consenso soltanto implicito dei protagonisti-vittime, esperimenti vagamente etnografici. Il padre, un famoso scrittore, obbliga la moglie e le tre figlie a vivere in un isolotto al largo della costa della contea di Cork, per trarre dalla loro esistenza l’ispirazione per i suoi scritti. Tutta l’attenzione è sulle figlie: alle più grandi spetta prendersi cura a turno della piccola, cui capiterà un incidente increscioso capace di stravolgere le vite di tutti; partiranno dunque alla volta dell’isola di Wight, poi di Procida, dove l’autore ha vissuto a lungo. Storia di coscienze tormentate dal rimorso, questo romanzo vale soprattutto per il suo stile mimetico del diagramma delle emozioni che passano tra detto e non detto, implicito e già sfumato.

Affidato a voci narranti femminili, oscilla tra il presente narrativo e il passato del ricordo, alternando dialoghi incistati nella narrazione, ciò che rimanda all’eco di quello sperimentalismo letterario che è sospettoso di ogni linearità. Intanto, il racconto si avvolge in un alone incorporeo, una sorta di nebulosa ambigua dove non c’è certezza dell’azione, ciò che libera via via chi legge dalla necessità di far tornare i conti. A tratti il tono memorialistico e intimo ricorda il migliore Johon McGahern, quello di Moran tra le donne, o dell’ancora inedito in Italia, That They May Face the Rising Sun, altro libro in cui la storia respira lo stesso respiro della natura. Come ha notato John Banville, William Wall si muove sulla lieve linea di confine tra l’astratto e il tangibile, tra il percepito e l’ombra del dubbio, terreno instabile sul quale la scrittura cerca una interiorità non intimistica, ambigua e tuttavia mai incerta.