Di fronte all’arte di gente di genio – atti o azioni che non capisci immediatamente con l’intelligenza perché ti colpiscono prima nella sensibilità – quante volte abbiamo esclamato di avere a che fare con qualcosa, diciamo, dell’altro mondo? Certo, con sfumature e sfumature (esempi di un passato rimosso, esempi di un presente sconosciuto, entrambi i casi), ma siate sinceri: la sostanza del riferimento rimane intatta.
Ora va da sé che questa sorta di espressione, altro mondo, nasconde e quindi rivela tutta una serie di costruzioni concettuali, evidenti e no. Qui proviamo a considerarne una, e cioè la sua interpretazione come forma di razionalizzazione, per così dire, estrema – si pensa: non riesco a «leggere» quello che ho davanti, qualcosa sfugge; si corre allora ai ripari e si dice: è forse una cosa dell’altro mondo così che qualcosa, al contrario, affiora. Però non analiticamente. In altre parole, ci si trova presi in una trama tra mistero e creazione, e quando la situazione sembra estendersi a tutto lo scibile, sembra apparire – alla fine – una immagine del mondo come sovrapposizione di una lettura di «questo» e la creazione di un «altro». Ma per prenderne atto, come anticipato, ci vogliono gli esempi giusti, e William Klein (1928) è senza dubbio uno di questi.
Al Palazzo della Ragione di Milano fino all’11 settembre è in programma la mostra Il mondo a modo suo , una retrospettiva dell’opera dell’artista d’origine americana ma d’adozione parigina. C’è perciò tutto: tele a rappresentare il suo primo periodo creativo, quello pittorico (la tecnica hard-edge), in cui è forte l’influenza di uno dei suoi mentori, l’artista Fernand Léger; la fotografia di moda per la rivista Vogue; la fotografia di città e quindi di viaggio (New York, Roma, Mosca, Tokyo, Parigi); il lavoro di contaminazione fotografia-pittura dei Contatti dipinti; il cinema con proiezioni in loop di sequenze di suoi film (ultima sala della mostra, soluzione perfetta nell’economia dell’allestimento). C’è tutto e si può intuire tutto, senza problemi: gli interessi a 360 gradi di Klein, dalla moda alla politica; il suo essere testimone della Storia; il gusto eclettico; le sperimentazioni visive.
Ora chi si troverà per la prima volta di fronte a questa opera-mondo avrà il piacere di scoprire un testimone «estatico» di diversi ambiti, un uomo capace di rivoluzionare la fotografia trasfigurando la realtà senza estetismi – il suo libro fotografico su New York, Life is Good & Good for You in New York (1956), è considerato uno dei più importanti di sempre nel campo, spesso accostato al libro di Robert Frank, The Americans (1958); il suo lavoro per Vogue ha modificato la fotografia di moda e si presenta oggi come modello di rara bellezza – ma anche un uomo di cinema in grado di realizzare film particolari e tutti, per motivi diversi, da vedere.
Chi invece conosce già l’opera di Klein avrà la conferma di essere interessato – o interessata – a qualcuno in grado di raccontare il secondo Novecento come pochi, e in più con il piacere di farne esperienza in modo sincretico, cioè come si conviene per rendere giustizia a uno sguardo così curioso di tutto. Ma in entrambi i casi la mostra può anche essere una buona occasione per delineare due caratteristiche dell’immagine del mondo che sembra suggerire.
Nel caso di William Klein quello che si vede – questa è l’ipotesi – sembra rivelare tratti epici. Ma che cosa potrebbe significare, qui, vedere in modo epico la realtà? Al di là della ricerca estetica, potrebbe essere: caricarla di premesse e di promesse. Prendiamo le foto del nostro: nella maggior parte di queste il dinamismo visivo che si percepisce sembra poter raccontare persone come personaggi e, per di più, bigger than life, oppure micro-storie senza soluzione di continuità tra artificio e verosimiglianza. Pochi dettagli, uno, due scatti, oppure una breve sequenza: il ritmo è tratto; il ritmo è il tratto.
L’impressione persiste anche con il cinema: basta vedere pochi minuti di come Klein ha filmato lo sport nella sua carriera – pensiamo al suo film sul Roland Garros, The French (1981), oppure a quello sul compianto Cassius Clay, Muhammad Ali, the Greatest (1974) – e ci si rende subito conto di come la ricerca di un tono epico sia sempre stata una costante dell’artista, al di là dei generi. Si potrebbe dire che si tratti di una qualità della narrazione, qualcosa in grado di esaltare il dettaglio di una immagine o il quotidiano di una azione fino al parossismo ma, sempre, salvaguardando la traccia o anche solo l’intenzione documentaria (come dire, Klein è sempre stato sul pezzo).
In altre parole, epica come forza che incide e taglia e non come forma che modella e plasma. Da qui, la funzione dell’atelier. Se Klein è rimasto sulla scena così bene e così a lungo – poco importa se sulle passerelle della moda o della strada – è perché forse, alla base, c’è un lavoro pittorico che lo ha reso subito familiare al silenzio dell’immagine, qualcosa che non lo ha fatto più guardare alla realtà come fosse solo la realtà. Esperienza d’atelier come forma mentis: è forse questo il passaggio necessario per prendere atto, nel mondo raccontato dal nostro, di un modo di guardare che lascia il segno, un modo per cui osservazione fa spesso rima con invenzione.