Quartiere antropomorfo, dall’anima ferita ma anche un po’ malevola, limbo metafisico o girone infernale, Brooklyn torna nella narrativa americana, quasi invisibile all’ombra di Manhattan, con l’East river che fa da portale fra due mondi.

«I confini di Brooklyn sembrano quasi inconcepibili», scrive James Agee in Brooklyn è, «orizzonte dopo orizzonte, un’incalcolabile proliferazione di case su case e strade su strade, infinita nel tempo e nella pazienza e nella popolazione così come nello spazio».

Cantata da Walt Whitman e Hart Crane, orfana di madre in Jonathan Lethem, e ultima fermata in Hubert Selby Jr., Brooklyn si traforma in un simbolo polimorfo, fondamentalmente ambiguo, un luogo dell’anima che è anche apertura sull’indistinto, in una città fondamentalmente irriducibile a qualunque paradigma, e perciò mai del tutto rassicurante.

Sempre traslucide, le geografie letterarie americane mostrano e occultano l’inconscio sociale, partecipando non di rado alla costruzione dell’intreccio con la dignità e la forza di un personaggio: è il caso di Gravesend (traduzione di Raffaella Vitangeli, Minimum Fax, pp. 300, € 18,00) noir che William Boyle ambienta nel quartiere di Brooklyn che dà il titolo al libro, introducendo il lettore in uno spazio esiziale in cui trame di vite distrutte si legano indissolubilmente ai luoghi dell’infanzia, e tessono un destino minaccioso che sembra inciso come un marchio sui protagonisti.

Come e più di altri generi letterari, il noir esprime fondamentalmente quella che Jacques Derrida chiamava «ontopologia», ovvero una connessione tanto spettrale quanto indissolubile tra l’essere e il luogo, tra una trama e gli spazi in cui essa si svolge. Il quartiere di Gravesend è dunque l’oggetto principale del romanzo, che pare procedere attraverso una serie di panoramiche cinematografiche interrotte qui e là da un close-up sui personaggi, legati l’uno all’altro dalla condivisa appartenenza alla comunità italoamericana del luogo, ma soprattutto da una rete di passioni violente: odio, sessualità brutale, prevaricazione, indifferenza crudele.

Al centro della storia, come spesso accade nella crime fiction, il dramma adolescenziale di un ragazzo omosessuale morto per quello che oggi si definirebbe un crimine d’odio. L’onda d’urto di questa tragedia si ripercuote in maniera diversa, ma sempre ineluttabile, sulle vite dei protagonisti, agendo più come un centro di gravità che come un vero e proprio buco nero capace di risucchiare i personaggi. La scrittura di Boyle è stata accostata a quella di Flannery O’ Connor, e sebbene il paragone appaia forzato, c’è in questo scrittore un utilizzo simile della violenza come improvviso e scioccante momento di epifania, che tuttavia, slegato dalla visione profondamente religiosa dell’autrice, tende a presentarsi come un crudo (sterile, addirittura) sguardo improvviso sulla incomprensibile brutalità della vita urbana statunitense contemporanea – elemento ulteriormente sottolineato dalla prosa scarna ma affilata di Boyle, che tende a presentare anche i momenti più dolorosi con un distacco pressoché totale.

L’impressione finale è che la Brooklyn di Gravesend non sia tanto un’orfana, ma piuttosto una madre indifferente al destino dei suoi figli, impassibile di fronte al disfacimento implacabile delle loro vite.