Quanto segue è il risultato-rielaborazione di un incontro con l’attore americano Willem Dafoe avvenuto durante il Lucca Film Festival 2017, tra la masterclass da lui tenuta ed una intervista privata concessa successivamente.
La masterclass – una lezione e ricognizione sulla sua carriera – si è svolta in forma di conversazione.

Assieme a chi scrive, l’altro interlocutore è stato Emanuele Vietina (Lucca Comics & Games).
Qual è per Willem Dafoe, attore di cinema ma con origini nel teatro di ricerca – campo in cui ancora oggi lavora (si pensi alla sua collaborazione con Bob Wilson) – la differenza tra essere attore di teatro e attore di cinema? Pensando a questo, per esempio, un Vittorio Gassman sosteneva – vado a memoria – che nel teatro c’è di mezzo un discorso tecnico, di recitazione, mentre nel cinema sembra più una questione di «essere presenti», essere lì, di fronte alla macchina da presa.
Con tutto il rispetto non penso di essere d’accordo con il pensiero di Vittorio Gassman sull’argomento. Inoltre, della differenza tra teatro e cinema dal punto di vista dell’attore potrei parlarne all’infinito. È una ottima questione. Prima di tutto limitiamo la domanda al ruolo e al lavoro dell’attore. Come dicevo, non sono sicuro di essere d’accordo con questo punto di vista di Gassman – noi, come attori, conosciamo bene quelle che sono le differenze di mezzo con il quale andiamo poi ad esprimerci. E il motivo per cui non sono d’accordo è che l’«essere», in teatro, è altrettanto importante, soprattutto da un punto di vista interiore. Tutte le sere che andiamo in scena ci confrontiamo con quella che è la recitazione ed è come se la rianimassimo, come se la facessimo rivivere dalla morte, come se facessimo elevare questo spirito interno. Nel cinema c’è più flessibilità, perché bene o male non è che devi riproporre esattamente la stessa cosa. Non è fisso, non ci sono questi obblighi. C’è un canovaccio, quindi – in essenza – direi che in un film si tratta di catturare un qualcosa, nel teatro si tratta di far rivivere. E poi c’è anche un aspetto forse un po’ ovvio, cioè che nel teatro sei tu padrone dei tuoi ritmi, mentre invece nel cinema è il montaggio che controlla il ritmo.

La sua carriera inizia dagli anni Settanta, in teatro, poi il cinema, con registi che sarebbero poi diventati grandi autori, e arriva fino ai giorni nostri. Ora, sarebbe interessante sapere se nel corso del tempo si può parlare di suo metodo attoriale, capire se ci sono stati cambiamenti, magari dovuti all’incontro con determinate persone o per opere realizzate come attore.
In verità io non ho un metodo, perché credo che per ogni progetto che intraprendo la ricerca sia completamente diversa. A volte si tratta di un cercare un qualcosa, altre volte sai già di che cosa hai bisogno e cosa vai cercando. Quindi essere un attore è essere diverso per ogni evento. Se vogliamo cercare un filo conduttore nel corso della mia carriera è che io sono una persona semplice. Non sono cambiato molto e non ho imparato niente. So solo che quando sono stato in scena ci sono stato di già. Possiamo dire che recitare è un gioco basato sulla confidenza e sulla fiducia in sé stessi. Devi essere pronto ed aperto a essere flessibile, a ricevere quello che ti viene dato per poi poterlo mandare avanti, per poi poterlo fare vivere. Quindi gli approcci possono essere – diciamo così – diversi, però poi, alla fine, niente cambia. Questo è il metodo. Poi, chiaramente, quando sei più giovane, hai ambizioni diverse. Io oggi sono meno ambizioso rispetto a prima per quanto concerne che cosa voglio per la mia carriera ma sono più ambizioso in questi termini, e cioè che cos’è che voglio, che cos’è che mi fa andare avanti a ricercare, che cos’è che io posso «lasciare».

Nella sua carriera ci sono alcuni film lontani dalla sua cultura che sono stati in qualche modo interessanti per lei in relazione al suo lavoro come attore?
Si, potrei dire Pavilion of Women (Yim Ho, 2001), perché è stata una esperienza che mi ha portato a lavorare in Cina e nessuno – né il regista né io – parlava la stessa lingua. È stato eccitante.

Invece ci sono attori o attrici che lei ammira, anche come una sorta di modelli di riferimento nella sua recitazione? E se si, perché?
Beh, io non direi che ho dei modelli, però ci sono degli attori e delle attrici che quando fanno un film o uno spettacolo teatrale, vado a vederlo. Per esempio Isabelle Huppert (sollecitato da una domanda dal pubblico, menzionerà anche Gene Hackman nel corso della masterclass. N.d.A.), sia le sue performance teatrali sia le sue interpretazioni al cinema. Ora, fare una lista è un po’ difficile, perché fare un film è un atto collaborativo. Ci sono attori che ti danno piacere quando li vedi, perché non stanno facendo cavolate («bullshits»). Ricordiamoci comunque la dimensione collaborativa quando si fa un film. Ma ho invece io, ora, una domanda. È possibile avere una buona performance in un cattivo film? Nonostante molti dicano di si, secondo me no, non credo sia possibile, perché un attore deve essere al servizio del film. Sì, può prendere dei rischi, dimostrarsi coraggioso, scintillante, ma a quel punto è più un esercizio che quello che era stato delegato a fare… ma può esserci una cattiva performance in un bel film!

In altre sue lezioni sulla recitazione lei ha parlato di «sparizione». Cito una sua frase da una di queste lezioni, relativamente recente, vista in rete: «I like to disappear». So che può essere qualcosa di cui può parlare per ore, ma se potesse dire qualcosa in merito credo sia importante. Può chiudere un cerchio.
Credo sia diventata un po’ un mantra, ma credo sia mal capita come cosa. Sparire ma sparire in qualcos’altro. Darsi completamente, concedersi completamente ad una idea, un costrutto. Per farsi trasportare. Mi sono formato con l’esperienza nel fare teatro molti anni fa, ma in particolare lavorando con il Wooster Group che, in merito, mi ha insegnato la differenza tra il fare («doing») e l’apparire, mostrare («showing»). Quando io parlo di sparire o di non sembrare un attore, non sto parlando del naturalismo. Devi comunque conservare quelle che sono le capacità di un attore. Forse, la cosa più importante, è il ruolo («place») che vai a dare al tuo ego. Devi arrivare a poter illudere te stesso, un pochino come quando ci si innamora. Quando ci si innamora faresti qualsiasi cosa per quello che è l’«oggetto» del tuo desiderio. E questo ti fa perdere l’identità di te stesso, per quel periodo di tempo.

Possibile circoscrivere tutto questo in una formula?
È qualcosa che supporta qualcos’altro, supporta un divenire. Divenire qualcosa che non ha nemmeno un nome, perché è in un processo, e quando sei in questo processo, nel modo più puro, sei al centro di tutte le cose.

A tradurre, in diretta, ci ha pensato per noi la traduttrice del festival Tessa Wiechmann (nella trascrizione, per i passaggi della masterclass, è stata utilizzata la sua versione). Si ringrazia il Lucca Film Festival.