Tutti gli ingredienti della perfetta storia americana – grandiosità della natura, ambizione, conquista della metropoli, comunità multilingue e, non da ultimo, un’eroina indomita – sono in dote al terzo romanzo della statunitense Willa Cather, Il canto dell’allodola (prima traduzione italiana di Giuseppina Oneto, Fazi, pp. 571, € 18,50) che tuttavia non risulta, alla lettura, scontato né facile. Il merito della sua originalità va ascritto sia alla speciale fisionomia intellettuale dell’autrice sia alla sua protagonista, il soprano Thea Kronberg, un personaggio complesso fin da quando, febbricitante e mescolata agli altri figli di un religioso del Colorado di origini svedesi, entra nel raggio visivo, emotivo e intellettuale del dottor Archie.

Qualcosa di diverso in lei
L’effetto di un’entrata in scena tanto sommessa non potrebbe essere più suggestivo: segnala la casualità di Thea e simultaneamente la sua inevitabilità. Serve a dire che fin da bambina, sveglia e bella com’è, Thea è destinata a farsi notare. Qualche pagina più avanti, dopo averle preparato un cataplasma, Archie «le tastò premurosamente la testa con la punta delle dita. No, non poteva dire che fosse diversa dalla testa di qualsiasi altro bambino, però era certo che in Thea c’era qualcosa di molto diverso. Studiò il suo volto largo, arrossato, il naso lentigginoso, la piccola bocca ardente e il mento tenero e delicato, l’unico tocco di dolcezza nel suo duro visetto scandinavo».

Con l’abilità che la contraddistingue, in questa piccola scena Cather ci dà un saggio della sua maestria, della sua non comune capacità di gestire contemporaneamente toni e sentimenti diversi – l’affetto, lo sgomento, l’ironia – e di saperlo fare con grande eleganza. Il suo personaggio è un essere femminile aggraziato e al tempo stesso interessante che come spesso accade – qui siamo in un romanzo del 1915 – non può fare altro che suscitare una morbosa curiosità maschile.

Quali pensieri misteriosi si agitano all’interno di quella testolina? Archie se lo chiede sfoderando un piglio scientifico talmente ridicolo da far temere a noi lettori di essere stati imbrigliati nella rete di un uomo patetico. Tuttavia, mentre segue la vita di Thea, dalle lezioni di pianoforte nella nativa Moonstone alla formazione in Europa come cantante e infine al successo a New York, Cather si occupa anche dell’evoluzione del personaggio Archie, mostrandoci come quest’uomo sia capace di migliorare sé stesso, anche per merito di una ragazza determinata come Thea. Sebbene l’abbia studiata con tanto interesse, «Lui non la conosceva meglio degli altri», sarà costretto a riconoscere osservando Thea all’apice della sua carriera. Proprio questa consapevolezza lo salva.

Cather è generosa e comprensiva, con Archie come con gli altri ammiratori e mentori (Ray, Wunsch, Johnny, Harsanyi, Bowers) che nel romanzo vedremo ruotare attorno a Thea, perché, nonostante tutto, a nessuno di loro farà mai venire in mente di fermare la sua eroina o di imporle le loro idee. Non potranno far altro che sostenerla, anche economicamente, e potranno, se vorranno, anche innamorarsi da lei, seppur con soggezione.

Diversamente da quanto accade in Ritratto di signora di Henry James, il romanzo dell’autore che (insieme a Sarah Orne Jewett), Cather più ammirava, Archie, e tutti gli altri personaggi che Cather ci mostra ripetutamente impegnati in conversazioni che riguardano il loro oggetto del desiderio, non restano ai margini, non siedono lontani come oziosi voyeur a godersi lo spettacolo di Thea che si fa strada nel mondo. Gli uomini del Canto dell’allodola, a differenza del jamesiano Ralph Touchett, sostengono Thea, partecipano attivamente alla sua crescita, e quando non possono farlo si mettono da parte, ma solo per poterle tornare accanto laddove lei ne avesse bisogno, oppure per ammirarla nei suoi trionfi.
Perché Cather perdoni i suoi personaggi, nonostante amino speculare su una donna sorprendente è ovvio: diversamente dalla Isabel Archer del Ritratto jamesiano, Thea Kronberg di talento ne ha così tanto da spingere la sua autrice a immaginare che questa sua forza possa incenerire anche i peggiori istinti maschilisti.

Künstlerroman strapazzato
Il conflitto interiore dell’artista, che lotta per scrivere, dipingere, suonare, cantare è una tema classico della letteratura statunitense. La propria versione, Willa Cather la restituisce, nel Canto dell’allodola (il suo romanzo più autobiografico) affidandosi a una forma stabile come il Künstlerroman. Prima strapazza un po’ il genere, trasportandolo nel Middle West statunitense, tra gli echi degli antichi abitanti Anasazi e tra gli immigrati del Nord-Europa, poi trasferendolo nei salotti dei melomani di Chicago e, infine, sul palco della Metropolitan Opera House di New York, la città dove ogni sera Thea si affatica e dove per riprendersi mangia e beve con buffa voracità.

Sembrerebbe il percorso della classica success story americana: se non fosse che nel Canto dell’allodola il traguardo artistico è scoperta, avanzamento paziente, conquista meditata. Thea non stipula alcun patto con il diavolo, invece si impegna e si dedica alla sua professione. Il talento che dimostra non è un dono, bensì una assunzione di responsabilità, da accettare, e di cui prendersi cura. «Sua madre – ricorda a Thea il maestro Harsanyi – non ha messo al mondo una persona che suonasse il pianoforte. Questo al mondo deve metterlo lei».