Dälek è uno dei nomi più importanti quando si parla di hip hop sperimentale. La band originaria del New Jersey, che ora si presenta in versione duo formato dall’mc Will Brooks e dal polistrumentista Mike Mare, nel suo lungo percorso ha sempre alzato l’asticella della sperimentazione, incorporando nel suo sound arrabbiato, ispirato da Public Enemy e De La Soul, innesti noise, metal, atmosfere industrial e influenze krautrock. Non è un caso che praticamente dall’inizio i Dälek si siano accasati presso la Ipecac, etichetta fondata da Mike Patton dei Faith No More, di cui quest’anno ricorre il ventesimo anniversario.

La label californiana, covo di radicali esploratori dei suoni più estremi, ha pubblicato molti dei gruppi con cui i Dälek hanno collaborato in questi anni (come i Melvins o gli Isis, tra i pionieri del post-hardcore). È un percorso che ha incrociato più volte l’Italia, con la partecipazione a un lavoro dei bresciani Aucan ad esempio, o con lo split album assieme agli Zu (uscito per la milanese Wallace Records, altro ventennale da festeggiare nel 2019). Domani sera i Dälek saranno al festival Curtarock, nei dintorni di Padova, per la loro unica data italiana, affiancati proprio dalla band di Ostia (con la nuova formazione a quattro, dopo il ritorno di Jacopo Battaglia alla batteria e l’entrata di Stefano Pilia alla chitarra).

«Quando abbiamo cominciato» racconta Will Brooks, «c’erano davvero pochi artisti a fare quello che facevamo noi. Non so se tutti quelli che oggi fanno noise hip hop ci conoscano o si rifacciano a noi, ma credo che siamo stati tra i primi a immaginare qualcosa del genere. Ed è fantastico incontrare persone a cui piace la nostra musica». Negli scorsi mesi sono usciti due lavori che hanno visto coinvolti i Dälek, l’ep di sei pezzi Respect to the authors (in attesa del nuovo disco, ora che sono passati due anni da Endangered Philosophies) e l’album omonimo del super-gruppo Anguish, in cui troviamo oltre ai Dälek, Hans Joachim Irmler, fondatore degli idoli tedeschi Faust e vecchia conoscenza del duo hip hop, il sassofonista svedese Mats Gustafsson e il suo compagno di band nei Fire! Orchestra Andreas Werliin.

«Avevamo già lavorato con Joachim dei Faust» spiega Will, «è stata un’esperienza grandiosa e per lungo tempo avremmo voluto fare qualcos’altro insieme, senza riuscirci per i molti impegni di tutti. Questa volta ce l’abbiamo fatta a trovare qualche giorno libero tra due tranches di concerti, anche con Mats, con cui parlavamo da tempo di collaborare. Siamo rimasti una settimana in studio da Joachim, in Germania, registrando tutto, senza sapere cosa sarebbe venuto fuori». Ma il risultato è davvero eccezionale: un album che mixa perfettamente hip hop, jazz e noise, un capolavoro passato sottotraccia, che dal vivo rende anche meglio. «Abbiamo fatto i primi concerti da poco» spiega Will, «ma è difficile per le agende fitte di ognuno e in più siamo tutti sparsi per il mondo. Pensa, ci siamo trovati a suonare ad Austin un sabato per poi volare la domenica a New York, per prendere un aereo da lì alla Germania per un concerto di lunedì. Per noi la logistica è un incubo, ma cerchiamo di farlo perché sono poche le opportunità che abbiamo di suonare insieme con questo progetto».

È la forte personalità dei Dälek che colpisce in ogni momento, la capacità di suonare sempre attuali, la visione lucida della società attorno a loro, che tuttavia non lascia mai cadere la speranza. «Credo che tutta la nostra rabbia sia ancora lì, le nostre critiche alla religione, al governo, alla società» riflette Will, «ma c’è sicuramente anche molta speranza. Credo che oggi sia molto facile farsi deprimere, ma alla fine io sono un essere umano e credo davvero nelle persone. Fin dall’inizio abbiamo solo cercato di fare della musica che ci rendesse felici, di cui fossimo fieri. Mi sento a posto con me stesso rispetto a ogni disco su cui ho lavorato, sono contento anche degli errori. Ed è questa la ragione che ci porta a continuare a innovare, a spingerci sempre oltre. Voglio continuare a fare della musica che mi faccia emozionare, per me è come una terapia. E finché sarà così, non ho alcuna ragione per smettere».