Dolcemente austero, ricco di dettaglio, velatamente malinconico, come alcune delle belle interpretazioni per cui il suo autore si è fatto apprezzare sulla scena del cinema Usa, indipendente, e non: è Wildlife, l’esordio alla regia di Paul Dano e il film con cui, dopo la prima a Sundance 2018, Charles Tesson ha scelto di aprire la sua Semaine de la Critique. Mentre l’inizio del festival si dibatte tra polemiche sulle «riforme» decise da Fremaux nella griglia delle proiezioni per i giornalisti, e l’incessante tam tam su/di #MeToo, che quest’anno rischia di prosciugare qualsiasi reale conversazione sul cinema, questo piccolo film sul declino delle mascolinità tradizionale e l’emancipazione di una donna, raccontati attraverso lo sguardo di un bambino che vede il matrimonio dei genitori sgretolarsi davanti ai suoi occhi, ci ricorda la possibiltà di affrontare argomenti complessi, abbracciandone le sfumature, gli irrisolti, con intelligenza. Quasi con affetto.

Per la sua prima volta volta dietro alla macchina da presa, Dano – che cofirma l’adattamento con l’attrice, e sua compagna, Zoe Kazan – ha scelto un testo non facile ma che, dice lui, non riusciva a scrollarsi di dosso, il romanzo omonimo di Richard Ford pubblicato nel 1990. È in un paesino del Montana, ai piedi delle Montagne Rocciose, che la famiglia Brison viene a stabilirsi, dopo un ennesimo trasloco. Jerry (Jake Gyllenhaal), il padre, non conserva a lungo i suoi posti di lavoro – è troppo orgoglioso, emotivamente fragile, impulsivo. Terrorizzato di non essere all’altezza dell’uomo che vorrebbe apparire agli occhi della sua famiglia, Jerry perde il lavoro al club di golf locale per aver fraternizzato troppo con un cliente, e poi lo perde di nuovo quando si rifiuta di tornare anche se la direzione del club gli ha chiesto scusa. Sua moglie Jeanette (Carey Mulligan), una casalinga, lo appoggia e lo incoraggia con pazienza, cercando di far quadrare i conti.

Ma quando lui rifiuta un lavoro al supermercato, prende la situazione in mano si fa assumere come istruttrice di nuoto alla piscina locale. Per non essere da meno, il figlio quattordicenne Joe (Ed Oxenburg), va a fare l’assistente di un fotografo di ritratti –un’occupazione la sua, quello dello sguardo, che è anche una metafora del personaggio. Jerry vive il nuovo assetto famigliare come un’ennesima umiliazione e, in risposta, parte (come tanti uomini continuano a partire per la guerra) per andare a combattere un fuoco invisibile che infuria sulle montagne circostanti. Rischiare la vita è il suo modo di riscattarsi rispetto ai tempi che cambiano.

La promessa di tornare – forse- con l’arrivo della prima neve. In lui si intravede lo stoico e triste padre della famiglia anni cinquanta di Tree of Life, ma anche la lezione sulla trappola nell’archetipo americano di Il petroliere (di cui Dano era co-protagonista). E, oltre a Ford, Dano e Kazan sembrano aver letto Stiffed, il magnifico libro di Susan Faludi sulla crisi dell’identità maschile a partire dai cambiamenti sociali ed economici iniziati in Usa dal secondo dopoguerra. A casa, Jeanette si adatta in un rapporto ambiguo e non necessariamente gioioso con la sua emancipazione, cedendo alle attenzioni di un uomo vecchio, ricco e zoppo ma gentile. La scoperta e il controllo della propria indipendenza non sono un processo facile. Quando Joe cerca di interferire, non tanto in nome di suo padre quanto del suo ideale, lei ribatte: «Se hai un piano migliore dimmelo. Io non ce l’ho». Il film di Dano, splendidamente girato da Diego Garcia – già collaboratore di Apichatpong Weerasethakul – con una predilezione per i piani posati, lunghi e ben composti, trova la sua vocazione più alta e originale in quell’accettazione. Che poi significa vivere.