Nei tredici anni trascorsi dall’ultimo album degli Who, Endless Wire, Roger Daltrey e Pete Townshend hanno pubblicato dischi solisti, scritto libri e suonato in giro per il mondo. Ed è forse in questo periodo che hanno maturato la consapevolezza del bisogno di un ultima, probabilmente, scossa tellurica nell’ormai soporifero tempio del rock. Invece di rinchiudersi in un passato murato di nostalgia e lutto, il duo ha realizzato un album di inediti, WHO, che ha il coraggio di guardare in faccia, senza piagnistei, la vecchiaia e la morte: «Me ne sono andato da tempo», canta Daltrey in All This Music Must Fade – l’apripista dal titolo più che evocativo – «e non tornerò mai più».

UN BRANO che definisce subito i colori quasi tetri di un testamento sonoro che non sacrifica la consueta denuncia politica e sociale. Nel singolo Ball and Chain infatti ritorna quell’aggressività tanto cara a Townshend: una traccia, che ricorda l’epoca di Who By Numbers, di pura energia che racchiude un forte messaggio politico sulle terribili condizioni del carcere di Guantanamo «Quel bel pezzo di Cuba/Progettato per causare dolori agli uomini/Quando arriverai a Cuba/Non ti sentirai più lo stesso». Sebbene non vi siano narrazioni o temi di collegamento che definiscono il disco, abitudine tanto cara quando si riascoltano concept album come Tommy o Quadrophenia, l’individualità di ogni singola canzone rende possibile il dialogo fra un brano e l’altro: Street Song serve come promemoria per l’incendio della Grenfell Tower, con la storia di un uomo che non è riuscito a fuggire dalla torre, mentre I’ll Be Back racconta dei tempi passati e si «ricollega» con le persone perdute. E sono proprio i defunti Keith Moon e John Entwistle, batterista e bassista della formazione originale, ad aleggiare in WHO, spettri della sezione ritmica forse meno «sostituibile» della storia del rock. Come si aggira anche il «fantasma» delle corde vocali di Roger Daltrey che dichiara, in I Don’t Wanna Get Wise: «Ho cercato di rimanere giovane/Ma le note alte sono già state cantate».

QUELLO che invece sembra non conoscere l’usura del tempo è lo stile di Pete Townshend: la sua chitarra suona forte ed emblematica come in A Quick One o Who’s Next, e più di una volta la sensazione è proprio di ascoltare quei dischi. Laddove altri chitarristi suonavano «semplicemente» assoli, Townshend ha da sempre intessuto trame capaci di avvolgere e graffiare come carta vetrata e questo suo «addio» sembra ferire ancora di più.