Per quindici anni Whitney Houston è stata la «ragazza d’America», la voce d’angelo forgiata a gospel e soul capace di scalare classifiche, vendere 100 milioni di dischi e farsi ammirare da tutto il mondo. Nel 2009 – quando ritorna sulle scene – quella voce si è trasformata in un canto dolente, distrutta da abusi di alcolici e droghe fino al tragico epilogo sul fondo di una vasca da bagno di un hotel a Beverly Hills.

 
Whitney, il doc di Nick Broomfield prodotto dalla Bbc in sala il 24, 25, 26, 27 e 28 aprile, racconta questa discesa all’inferno senza happy end. Si tratta del primo di due lavori dedicati alla cantante, ma è anche il più discusso perché girato in aperto contrasto con la fondazione che ne gestisce i diritti e l’immagine, la Whitney Houston Estate – che ha invece avallato un analogo progetto in fase di realizzazione, affidato al premio Oscar Kevin Mc Donald. La ragione è chiara, l’approccio di Broomfield non è agiografico, il regista indaga intorno alla figura delle star attraverso le testimonianze di musicisti, amici e produttori e le immagini inedite tratte dal backstage del tour del 1999. E poi il rapporto tempestoso con il marito Bobby Brown e con l’amica del cuore Robyn Crawford, su cui si sono concentrati i gossip circa una presunta relazione omosessuale.

 

 

E la voce di Whitney naturalmente, a raccontare l’adolescenza nel New Jersey: «Ero consapevole che per noi afroamericani non c’erano opportunità, dovevamo faticare tre volte tanto per emergere», i conflitti con la madre Cissy e le difficoltà di gestire l’esplosione repentina del suo successo e i relativi compromessi.
Doug Daniel dirigente dell’Arista – l’etichetta della pop diva – è chiarissimo: «Whitney doveva essere in un Paese connotato ancora da un forte razzismo, un’icona pop che potesse piacere anche ai bianchi». Troppe pressioni da sostenere per una ragazza dal talento smisurato ma dalla fragile personalità.