Nel 1948 in un passo del saggio «Da Poe a Valéry» T. S. Eliot metteva a confronto E. A. Poe e Walt Whitman, i due poeti americani il cui successo era stato proclamato in Europa piuttosto che in patria. In quella occasione egli rilevava che vi è nell’opera di Poe «un certo tratto di provincialismo» in un senso per cui «Whitman non è affatto provinciale: è il provincialismo di chi non si sente a proprio agio nel luogo cui appartiene»; Poe, aggiungeva, e si può non essere d’accordo, «è una specie di profugo europeo». Sulla «americanità» di Whitman (un potenziale limite a livello transnazionale ottocentesco), invece, non si sono mai nutriti dubbi, eppure le sue difficoltà a farsi accettare dai suoi compatrioti (gli altri suoi «se stessi» nel discorso democratico) furono il tormento della sua carriera, rimasta invitta grazie alla caparbietà dell’uomo-poeta (uomo disgraceful lo definisce per sentito dire Emily Dickinson) e la ferma fiducia nel suo progetto poetico, personale e nazionalistico.
Ma per giungere a un omaggio all’autore di Foglie d’erba Eliot ci mise molti anni, ripetendo così l’errore passatista e puritaneggiante del suo paese. Nel 1928 nell’introduzione alle Selected Poems di Ezra Pound, il quale, turandosi il naso, «Un patto» (1913) con «padre» Whitman l’aveva infine stabilito, Eliot ammetterà: «Ho letto Whitman solo molto tardi. Per farlo, dovetti superare un’avversione per la forma da lui adottata e per il contenuto». Forma e contenuto. Nel caso di Whitman, molto spesso le perplessità sulla forma – il linguaggio comune, il «barbaric yawp», il verso libero dal respiro lungo, l’assenza di rime – sono solo l’alibi che alcuni lettori dell’Ottocento e, ahimè, di buona parte della prima metà del Novecento scelgono, più o meno inconsciamente, per distanziarsi da certo contenuto. Entrambi furono a loro modo, dirompenti e da dover ingoiare, come una medicina, assieme all’America e le sue (e di Whitman) contraddizioni, se si intendeva crescere, al fine di «intagliare» nuovo legno (Pound).
È proprio sulle ragioni di una impasse di tale natura, segnalata dalle distanziate frontiere del consenso (in Italia da parte di D’Annunzio e Marinetti) che punta, con altri spiccati assestamenti, il «Meridiano» Mondadori dedicato all’ultima edizione (1891-1892) di Foglie d’erba (pp. 1658, euro 80,00), curato da Mario Corona con attenzione ‘organicistica’ e accerchiante: filologica, storico-culturale, transnazionale, politico-ideologica, pre-queer. Nonostante le numerose proposte parziali (incluse le ottocentesche) e la versione integrale di Enzo Giachino per Einaudi (1950) voluta da Cesare Pavese, questo «Meridiano» costituisce il primo tentativo in Italia di venire a patti con l’intera complessa costruzione di Whitman, un unico poema in progress che raggiunge infine un corpus di 398 poesie. A partire dalla raccolta di esordio, contenente solo dodici poesie, pubblicata anonima e in modo artigianale nel 1855, nel corso trentennale di nove edizioni di Foglie d’erba Whitman percorreva una strada tortuosa perché, di volta in volta, egli disseminava i suoi componimenti e poi, a scapito del racconto cronologico, li re-innestava, li decostruiva e rimescolava e riadattava, ristrutturando continuamente il suo palcoscenico erboso intagliato nella Natura (secondo Emerson) e nella natura umana «democratica» (secondo se stesso).
«Camerado, questo non è un libro, / Chi tocca questo tocca un uomo», egli scrive in «A presto!»: versi famosi in sintonia con la ricostruzione di Corona, il quale, a iniziare con il Canto di me stesso, via via che la «quercia» democratica delle Foglie cresce ramo su ramo, si arrampica egli stesso su quella quercia dalle radici: foglio su foglio, edizione su edizione, poesia su poesia, fino alla cima, fino a compattare la simpatetica identità di uomo-poeta-corpo-testo e America-anima-cosmo-lettore. Tuttavia, prima di inoltrarsi su questo versante egli preferisce aprire una finestra strategica (voyeuristica) su uno dei tanti sguardi «da oltre oceano», uno sguardo testimone, e forse partecipe, di certe consuetudini intimistiche di Whitman, come fu quello dell’inglese Edward Carpenter, che nel 1877 si recò in visita dal vate seduttore a Camden (Filadelfia). Si squarcia così in apertura il velo sui messaggi proibiti (perché per lo più omoerotici ma non solo) del testo e dell’uomo. Le carte della corporea «indirection» whitmaniana («oscena» per la censura), che corrono sempre a fianco del discorso aperto sulla democrazia, vengono così scoperte in anticipo. È solo un’antifona, per ora, prima di affrontare con occhi avvertiti la storia della nascita di Foglie d’erba, dei suoi sviluppi, delle sue implicazioni.
Sviluppi che si fanno già più disinibiti nella terza edizione del 1860 con l’inclusione delle sezioni Figli di Adamo (l’amore eterosessuale) e Calamus (l’omoerotico), che danno a Whitman agio di presentarsi come il poeta sensuale di e per «tutti», un poeta più sfacciato, perché molto più esplicito nelle sue proiezioni. Per esempio, quando rifà il verso (seriamente) a Catullo in soli quattro audaci versi: «O Hymen! O hymenee! perché mi tormenti così? / Oh, perché pungermi per un attimo fuggente soltanto? / Perché non puoi continuare? Perché smetti adesso? / Forse perché se tu continuassi oltre l’attimo fuggente finiresti di sicuro per uccidermi?». Versi non da antologia, bensì d’avanguardia che faranno forse gola (c’è qualche prova) ai Modernisti.
Seminati indizi più o meno segreti (covate «uova» furtive), mentre si segue la crescita dell’albero, si avverte in questa storia un momento di frattura, una ferita nel progetto patriottico e personale di Whitman, che restituisce, con responsabilità ideologica e umana, il poeta alla sfera civile. È il tempo della Guerra di Secessione che lo tenne impegnato nelle retrovie dei campi di battaglia e negli ospedali: «Veglia strana ho fatto sul campo questa notte; / Il giorno che tu figlio mio e mio compagno mi sei caduto accanto, / Un solo sguardo ti ho dato, e gli occhi tuoi cari risposero con uno sguardo che mai scorderò, / Un solo tocco della tua mano che cercava la mia …». Qui, in una lirica di Rulli di tamburo (1865), Whitman è compagno «di carità» (agape) che nello strano tocco di una mano vede riflessa la crisi totale della nazione da lui decantata come impareggiabile. È in questa guerra che, secondo Corona, si stabilisce una svolta e i due rami tematici delle Foglie (il democratico e l’erotico) «si intrecciano nel segno della democrazia politica inaugurata dalla Rivoluzione, che dovrà però estendersi fino a compiere una rivoluzione sessuale», ovvero all’affermarsi di un «nesso fra sessualità e democrazia». Proposta audace (e profetica) che in Inghilterra raggiungerà Oscar Wilde, D. H. Lawrence, E. M. Foster (ma non, si badi, Henry James!).
Può sorprendere invece la riservatezza «provinciale» (puritana? di eredità culturale? censoria?) dei Modernisti americani (Eliot, Pound, Stevens, W. C. Williams … fino a Robert Lowell), fra i quali, con poche eccezioni (Hart Crane, Carl Sandburg), Whitman circola come l’ombra di Cristo sulla strada di Emmaus; circola però sottotraccia, quasi derubato delle splendide punte emergenti dall’iceberg delle Foglie d’erba: i lillà per la morte di Lincoln, il canto di un uccello, qualche inno struggente a «Gea Terra», in cui figlio profetizzato e padre si affratellano. Ma tutto quasi tacitamente, a differenza che altrove (Neruda, Borges…). In America bisognerà aspettare la stagione Beat perché un camerado, Allen Ginsberg, riconosca infine il padre seduttore mentre fa le sue compere in un supermercato della California. È il primo approccio alla lettura che ci viene offerta oggi.