L’ultimo goccio di whisky nel fondo del bicchiere, un diluvio ininterrotto, un fiume senza ponti che in una sola notte di tempesta si fa muro d’acqua. Un uomo che prima di bere il suo doppio bourbon «si guarda nell’acqua grigia di uno specchio». L’esistenza ordinaria è invasa dalla liquidità: la claustrofobia ha consistenza liquida, e liquida è l’introspezione analitica, e la cerca dei ricordi d’infanzia, la distanza tra fratelli, la vita un po’ dissipata, noncurante, che si conduce in alcuni ranch americani al confine col Messico. Tanto i dati oggettivi – alcool, pioggia, torrenti – quanto le metafore ruotano intorno a una fluidità incontrollabile nel romanzo di Georges Simenon che Adelphi pubblica in nuova versione italiana, Il fondo della bottiglia (traduzione di Francesca Scala, «Biblioteca», pp. 176, € 18,00). L’acqua, oltre ad essere un ostacolo, è un reagente che occulta e svela colpe, mezzo di espiazione e feltro di oblio, come in altri «romanzi-romanzi»: si pensi al ghiaccio che per un’intera stagione, nell’Assassino, sigilla due cadaveri poi scoperti dal disgelo, alla pioggia incessante in quell’opprimente paesaggio d’umori e sadismo che è La casa sul canale, o al compromesso candore, stigma di violenza, in un romanzo dolente e acido come La neve era sporca (coevo, peraltro, a Il fondo della bottiglia).
Ma anche alcune narrazioni «alimentari» (escono ora i pur diversi, garbatissimi racconti su un investigatore dilettante, Il fiuto del dottor Jean, traduzione di Marina Di Leo, «gli Adelphi», pp. 163, € 12,00) e tante inchieste di Maigret si aprono e si chiudono su orli di sponde, si sviluppano in un’atmosfera d’acquario o in mezzo a dense filacce di bruma che ottundono e ritardano le percezioni rendendole più inaspettate: il corpo senza testa ripescato a pezzi imballati dal canale Saint-Martin; certe piogge mattutine che al commissario mostrano «una Parigi in bianco e nero, come nei vecchi film muti»; Il porto delle nebbie con la sua oscurità inquietante e malsana e con quel persistente odore di lana bagnata che sale dai cappotti, memoria biografica degli appendiabiti in aule scolastiche, stando all’infanzia di Roger Mamelin raccontata in Pedigree.
Nel Fondo della bottiglia l’acqua è barriera smisurata e mezzo della tragedia, attante reale e allegorico. A farne uno dei romanzi più intensi e laceranti di Simenon è un sostrato personale, un rendiconto intimo compiuto insieme alla sua stesura nel 1948, a pochi mesi dalla morte del fratello minore riparato nella Legione straniera su consiglio dello stesso Georges.
L’ambientazione, la medesima in cui il romanzo è stato scritto, Tumacacori in Arizona, certo distrae dall’Europa centrale nella quale il fratello Christian, aderente al fascismo belga, era stato condannato a morte in contumacia per aver collaborato alla rappresaglia delle SS a Courcelles. Alcune spie narrative, però, non permettono di ignorarne i riflessi biografici: il maggiore, proprio come l’affermato Georges, è un uomo produttivo che vuole difendere la sua posizione sociale, il minore invece, è stato condannato per omicidio ed è appena evaso. Come l’arruolamento nella Legione straniera aveva permesso, attraverso il cambiamento del nome, di indebolire i legami tra i due Simenon, così nell’invenzione il fratello «scrupoloso», per salvarsi la reputazione, decide di nascondere a tutti, moglie e vicini, l’identità del fuggitivo che gli piomba in casa.
In questo romanzo grave, oppressivo e viscoso, la tensione crescente non permette di sottrarsi né a un vis-à-vis fisico e morale tra i due fratelli né al recondito, graduale esame di coscienza condotto dal maggiore attraverso affondi memoriali e indispettiti giudizi sul minore capace di muovere immediata sintonia sentimentale, grazie a una sorta di tristezza che alcuni colgono in lui. E che però non convince il maggiore, Patrick Martin, all’americana P.M., che di Donald ha sempre invidiato «il petto forte e muscoloso» e fors’anche la chiusura egotica con cui attraversa la vita: «Triste? Ma che triste e triste! semplicemente non si prendeva mai la briga di sorridere o di mostrarsi affabile». I confini delle colpe – impossibile vederne una sola – sono sfumati e si confondono, sebbene non manchino dicotomie: negli Stati Uniti tutto appare pulito, «calmo, rassicurante», mentre il Messico limitrofo, e agognato dal fuggiasco, è un «mondo strano, equivoco, proibito».
Nulla è a tutto tondo: P.M. si è fatto una posizione, ha «lavorato sodo tutta la vita» e ha sposato una vedova ricca, seduttiva e intelligente, Donald è un fallito, è povero, ha sposato una «mammina bionda e snella», piangente e tremebonda, eppure le prospettive slittano e P.M. inizia a guardare le cose come crede possa vederle Donald, da povero sbalzato in un mondo di ricchi. I nodi familiari risalgono la superficie, dalla «mediocrità della casa natale» alla madre alcolista e tuttavia «dolce, umile e generosa», dalla tinozza in cui bambini facevano il bagno insieme, alle lettere della sorella Emily affiorate in un accurato montaggio di brevi e serrati flashback.
Il senso biblico del romanzo, all’inizio cupo, alla fine liberatorio, non è tanto nel contrasto tra Caino e Abele quanto in quello tra Esaù e Giacobbe, tra forza e debolezza, tra figli prediletti e figli che non lo sono, tra quelli che – con qualunque mezzo – ricevono la benedizione del padre e quelli che se la vedono sottrarre.
Mentre l’evaso inizia a mostrarsi «arrogante», «disinvolto e sarcastico», lo zelante prende «quasi un’aria da colpevole». Il malessere cresce insieme al rombo del fiume che s’ingrossa, la casa e la vita di P.M. cominciano a ondeggiare, «a tremare dalle fondamenta». Il fondo della bottiglia si rivela, allora, come il fondo di un amaro calice. Di un fatale redde rationem capovolto in sacrificio. P.M., che nella sua vita aveva saputo sempre «fermarsi in tempo», stavolta invece beve, volente, fino all’ultima goccia. L’inconscio, intanto, slarga gli argini e trascina detriti come il fiume Santa Cruz, «massa giallo scuro che scorreva densa e vischiosa, si sollevava a tratti e ansimava come una bestia».