La Whirlpool è convinta che il piano presentato al Mise è il migliore: investimenti per 500 milioni in 4 anni; 1350 esuberi da fare dopo il 2018; la chiusura di due stabilimenti (Carinaro e Albacina) più il centro ricerca di None. Nel sito di Melano si annuncia la crescita della produzione da 800 mila pezzi a oltre 2milioni l’anno. Rafforzati il sito di Siena, dove saranno portate alcune produzioni estere, e quello di Cassinetta (Varese) con 2 milioni di unità prodotte annualmente (tra forni, microonde e frigoriferi da incasso) e la possibilità di aumentare il personale di 280 unità. Saranno spostate in Italia anche le lavasciuga, che passeranno a Comunanza insieme alle lavatrici di alta gamma.

Ma queste ultime si fanno anche a Napoli: l’azienda ha annunciato di voler produrre 600 mila pezzi l’anno, per i sindacati ne occorrerebbero 900 mila per portare sulle linee tutti i 550 dipendenti napoletani, attualmente in contratto di solidarietà. Lo stabilimento partenopeo però è la foglia di fico che consente alla Whirlpool di dire che non scappano dalla Campania, pur volendo mandare a casa gli 815 operai casertani di Carinaro più i 500 dell’indotto.

Del resto da Napoli è difficile andare via adesso: la multinazionale Usa aveva sottoscritto nel 2005 il contratto di programma del consorzio Genesis (12 imprese coinvolte), beneficiario di un contributo di 77 milioni investiti da governo e regione. Il sito partenopeo avrebbe dovuto essere l’unico destinatario del lavaggio ma ci sono voluti dieci anni per completare le trafile burocratiche e, nel frattempo, è stata assorbita la Indesit. Con dei livelli di produzione così bassi e nessuna missione specifica, il rischio è che a Napoli si smobilitino le linee alla prossima occasione. Il governatore Stefano Caldoro, sotto elezioni, per frenare la fuga ha offerto nuovi contratti di sviluppo.

Eppure al premier Matteo Renzi la fusione Whirlpool-Indesit era sembrata «fantastica». A Pompei dieci giorni fa aveva rassicurato gli operai casertani: «Chiamo io lunedì gli Statunitensi». Poi però della telefonata non se n’è saputo nulla e il mercoledì successivo si è affrettato a dire «ci pensa il ministro Guidi». Tutti sereni allora? No e, infatti, dopo gli operai protestano anche i quadri: ieri ha scioperato la quasi la totalità degli impiegati delle sedi Whirlpool. Ai 1350 esuberi annunciati, da giugno si potrebbero sommare i licenziamenti dei colletti bianchi. Il gruppo dice che è presto per mettere sul tavolo il piano che li riguarda, gli impiegati invece pensano che il ritardo sia una scelta: per ora vengono utilizzati per il passaggio di consegne, poi si potrà mandarli a casa. Il punto è che le due aziende sono l’una lo specchio dell’altra, inevitabile che qualcuno ne paghi le spese.

Eppure il governo ha fatto il tifo per la holding a stelle e strisce. Al rush finale della vendita della Indesit erano arrivate in tre: la svedese Electrolux, che però era reduce da una complicata contrattazione su licenziamenti nei siti italiani; la Whirlpool, molto interessata a eliminare una concorrente sfruttandone però il marchio per penetrare nei mercati dell’est Europa; Sichuan Changhong Electric, terzo player della Cina (un fatturato da oltre un miliardo di euro), il cui core business sono apparecchi audio e video. I cinesi avevano presentato un’offerta maggiore e non avrebbero avuto il problema di siti produttivi doppione. Nei giorni precedenti la conclusione dell’affare, nelle Marche erano preoccupati: i sindacati temevano tagli e accorpamenti perché gli americani qualche mese prima aveva annunciato la chiusura del sito svedese di Norkoepping e dello stabilimento italiano a Spini di Gardolo, in provincia di Trento. Solo il governo non sospettava nulla.