«Io so che siamo soli», afferma Justine (Kirsten Dunst) in uno degli ultimi dialoghi di Melancholia. E per provarlo rivela a Claire (Charlotte Gainsbourg) il numero esatto dei fagioli nel barattolo che nessuno aveva indovinato, 678. «Io so le cose. E quando ti dico che noi siamo soli, siamo soli. La vita è soltanto sulla Terra. E per poco ancora». Nell’ultimo album di Weyes Blood, proprio come nel film di Lars von Trier, la depressione sembra essere l’unica porta d’accesso capace di condurre ad una consapevolezza superiore. Se il precedente Titanic Rising (2019) aveva ancora qualcosa del grido d’allarme, And In The Darkness, Hearts Aglow (Sub Pop) è il sequel in diretta da un’Apocalisse che non ha più nulla da svelare. Una presa d’atto, una cronaca musicale di delicata rassegnazione.Quand’anche i testi possano adombrare risposte — o quantomeno un invito all’azione — la musica depone per la resa incondizionata, per una contemplazione elegiaca di quello che resta.

«SIAMO tutti soli», conferma Weyes Blood/Natalie Mering sin dalla prima traccia It’s Not Just Me, It’s Everybody, ospite di una festa in cui ognuno è estraneo dell’altro. Quand’anche i testi possano adombrare risposte — o quantomeno un invito all’azione — la musica depone per la resa incondizionata, per una contemplazione elegiaca di quello che resta. Lo dicono le progressioni armoniche, cui piace insistere sulle sottodominanti, ciò che precede di un attimo la tensione massima, mentre dallo sfondo dell’immagine acustica le campane accompagnano melodie vocali che sembrano erigersi di parola in parola, come quelle di una giovane Joni Mitchell.

SONO SOLLIEVI momentanei, quelli della wilsoniana Children Of The Empire e di Hearts Aglow, prima della «ominuous music» di Holy Flux, dopo la quale neanche il country leggero di The Worst Is Done può convincerci che il peggio sia passato. Canzoni lunghe, riflessioni sul disfacimento ambientale e su quello morale e ideologico controllato dall’algoritmo e dagli schermi. Piccoli inni da cui emerge il retroterra gospel di una ragazza giunta alla pratica buddista da una classica famiglia californiana di confessione pentecostale.
Che la «nostalgica futurista» Natalie cerchi rifugio nell’analogico e nella sua vibrante imperfezione appare naturale quanto l’aggiornamento del mito di Narciso in God Turn Me Into A Flower, dominata dal synth di Daniel Lopatin. Cionondimeno, restiamo strabiliati ostaggi di un quadro spettrale, un canto delle sirene alla cui anestesia vorremmo pur sfuggire per andare a ricontare i fagioli, sperando non siano davvero 678.