«La pandemia ha rallentato i flussi del commercio internazionale e ci ha reso consapevoli dell’importanza delle risorse locali per diminuire la dipendenza dalle forniture esterne. Vale anche per l’industria delle costruzioni, i cui materiali standardizzati si muovono da una parte all’altra del pianeta. Si tratta per lo più di cemento tradizionale la cui produzione genera l’8 percento delle emissioni mondiali di CO2. Ottenere una tonnellata di cemento vuol dire aggiungere una tonnellata di CO2 nell’atmosfera. Per assorbire questo quantitativo di anidride carbonica, un albero ha bisogno di 40 anni!» Così scrive l’architetto Marina Tabassum nella prefazione dei materiali che illustrano il padiglione Wetland degli Emirati Arabi alla Biennale Architettura di Venezia (fino al 21 novembre) commissionato dalla fondazione Salama bin Hamdan Al Nahyan.

Gli Emirati sono tra i cinque paesi al mondo che inquinano maggiormente. Per rispettare gli accordi di Parigi sul clima hanno dato avvio a una serie di iniziative, tra cui l’utilizzo di energie rinnovabili. Tra queste iniziative trova spazio il progetto Wetland degli architetti Wael Al Awar e Kenichi Teramoto che stanno sperimentando un cemento alternativo a base di acqua salata altamente satura, residuo della desalinizzazione industriale. L’idea di un materiale da costruzione forte e insolubile è stata ispirata dai sali cristallizzati e dai minerali trovati nelle sabkha, le saline degli Emirati. L’intersezione di un antico tesoro geologico con l’innovativa ricerca sulla sostenibilità diventa così paradigma per il futuro.

Nel padiglione della Biennale spiccano le fotografie delle distese di sale di Al Ruwais scattate dall’artista emiratina Farah Al Qasimi residente a New York. Immagini larghe 4,5 metri e alte 3 che catturano il contrasto tra l’ambiente e l’urbanizzazione, simboleggiata dai cavi dell’alta tensione diretti alle enormi strutture industriali adiacenti che emettono un ronzio elettrico assordante. Originario del Libano, il curatore Wael Al Awar spiega: «Abbiamo usato il titolo Wetland per infrangere l’immagine stereotipata degli Emirati. In realtà il 5 percento della geografia locale è composta da sabkha, un termine arabo che indica i fiocchi di sale che nella convenzione internazionale di Ramsar del 1994 rientrano nelle wetlands. A protezione delle paludi e delle saline, la convenzione è una piattaforma voluta dall’Iran. Anche Venezia, sede della Biennale, rientra tra le zone protette. Il termine sabkha unisce quindi gli Emirati e Venezia».

43 anni, Al Awar ha il suo studio di architettura waiwai a Dubai e Tokyo. «Il nostro obiettivo», continua, «verte sulla questione climatica e sul ruolo e la responsabilità dell’architetto e dell’industria delle costruzioni in termini di inquinamento. Attualmente sul pianeta vivono 7,9 miliardi di persone, nel 2060 saremo 10,1 miliardi e il nostro fabbisogno raddoppierà: se oggi il nostro consumo è di 30 trilioni di tonnellate di cemento, nel 2060 sarà di 60. La fondazione Bill e Melinda Gates prevede che per i prossimi 40 anni dovremo costruire ogni mese una città grande come New York. La domanda di Sarkis, il curatore della Biennale, è come vivremo insieme? Non certo con il cemento, che già inquina tanto. La nostra alternativa è riciclare gli scarti industriali prendendo ispirazione dai fiocchi di sale, senza emissioni di CO2».

Costruito con moduli di cemento a base di ossido di magnesio gettati a mano e composti di salamoia industriale di scarto riciclata, il prototipo degli Emirati misura 7 metri per 5 ed è alto più di 2 metri e mezzo. «È costruito con 2400 moduli prefabbricati, prendono ispirazione dal mare perché l’architettura vernacolare degli Emirati trae spunto dal corallo», continua Al Awar. «Non vogliamo cambiare solo il materiale, ma anche gli spazi e l’architettura, sfuggendo alla standardizzazione dei materiali e delle forme che rende uguali gli edifici di Dubai e San Paolo. Nell’architettura vernacolare c’è un legame tra luogo e materiali, penso al legno e alle pietre. Se queste connessioni sono andate perdute, nel nostro progetto recuperiamo il legame tra luogo e materiali, chiedendoci quale possa essere il nostro ruolo di architetti e come possiamo lavorare con artigiani e scienziati».

In un Medio Oriente in fiamme, gli Emirati sono una piattaforma per i giovani talenti emergenti: «I paesi mediorientali sono in conflitto tra loro ma Dubai ci accoglie tutti, senza porci domande sul nostro passato. Sono nato in Libano, a 15 anni me ne sono dovuto andare a causa della guerra, sono tornato per iscrivermi all’università, mi sono laureato e ho cercato lavoro, invano: la corruzione mi ha obbligato a ripartire. In Giappone ho fatto carriera e imparato tanto. Ancora una volta, ho cercato di tornare in Libano. Sono rimasto 6-7 mesi, cercando di mettere su un mio studio, facendo fatica. Nel 2009 ho capito che il mio successo non dipendeva dalle competenze ma dalle conoscenze: non potevo farcela. Sono ripartito. A Dubai ho costituito una squadra e coinvolto colleghi di paesi come l’India, le Filippine, il Canada, gli Stati Uniti, la Giordania, il Libano, il Giappone. Insieme, lavoriamo per creare le città del futuro».