«Dovrebbero vederlo tutti. È fantastico. E, per chi conosce già lo spettacolo, ci sono delle sorprese. Tony Kushner, che lo ha sceneggiato, ha fatto delle scelte veramente creative e inaspettate con l’uso delle canzoni nell’arco della storia. L’intero film porta in sé una scintilla di vita e un’energia autentiche. Emana una sensazione di novità e freschezza. È un lavoro di prima qualità – i musical sono difficili da fare al cinema: Spielberg e Kushner hanno proprio colpito nel segno». La recensione di West Side Story più importante, quella che tutti -non solo Steven Spielberg- aspettavano con ansia, era quella di Stephen Sondheim. Il grande compositore americano, autore dei testi delle canzoni del musical originale (debuttò su Broadway nel 1957), l’aveva condivisa con gli spettatori del programma tv The Late Show With Steven Colbert, pochi giorni prima di morire, il 27 novembre scorso.

USCITO NELLE SALE Usa il 10 dicembre (in Italia arriva il 23), West Side Story è tutto quello che Sondheim descrive nella citazione di sopra. Dal confronto tra generazioni diverse di artisti enormi nella storia dello spettacolo americano – Sondheim, Leonard Bernstein, Jerome Robbins, Robert Wise da un lato; Kushner e Spielberg dall’altro- su un testo leggendario, è uscito un oggetto che vanifica già nei primi minuti qualsiasi dubbio sull’opportunità di rivisitare un classico, amatissimo ma anche scomodo in tempi culturali come questi (il «New York Times» ha recentemente dedicato un dibattito di due pagine ai «problemi» presentati dai cliché razziali del musical e dalla sua combinazione di romanticismo e violenza). Spielberg dichiara la sua affezione per il film di Robert Wise (uscito nel 1961, fu nominato per undici Oscar e ne vinse dieci) aprendo, come fece il regista di The Sound of Music, con delle inquadrature dall’alto, in pianta verticale, di Manhattan. Ma il tono è subito diverso: invece del viaggio verso nord – dai grattacieli simbolo del potere finanziario, immersi in luce dorata, ai quartieri popolari dell’Upper west side- la macchina di Spielberg (alla fotografia Janusz Kaminski) sorvola alcuni isolati di macerie e, prima di sprofondare verso l’asfalto, nelle strade, accarezza per un attimo la grossa palla di demolizione appesa ad una gru e il cartello che annuncia l’imminente costruzione di quello che diventerà il Lincoln Center. L’aggiustamento di punto di vista del nuovo film è stabilito con pochi colpi di pennello – la gentrificazione come teatro della storia, illumina fin dall’inizio il destino comune degli Sharks e dei Jets – degli immigrati portoricani che stanno cercando di farsi strada e del proletariato bianco rimasto indietro, che li teme/odia.

NON SOLO la guerra tra gang è una guerra inutile (come è inutile la guerra tra poveri e minoranze che si sta combattendo adesso in questo paese): in questa versione di West Side Story, canzoni come America e Somewhere (che coinvolge una delle variazioni di sceneggiatura più ardite e brillanti) assumono una sfumatura e un significato diversi. Dopo Munich e Lincoln, Tony Kushner si conferma lo sceneggiatore ideale per contribuire al cinema spielberghiano un fremito di contemporaneo intellettual/politico senza appesantirlo di retorica o di scrittura.
Garantito in quel senso, e da un’eccitazione comune che anima tutto film, Spielberg può volare, letteralmente. Scollando il musical dalla fissità frontale adottata da Wise (che Sondheim aveva molto patito nell’adattamento); dalla giustapposizione di stilizzazione e realismo, numeri musicali e storia; e da quanto datato. Collaboratori importanti di questa sua reinterpretazione sono il coreografo Justin Peck (trentaquattrenne, è il direttore delle coreografie del New York City Ballet) e il direttore d’orchestra venezuelano Gustavo Dudamel (quarant’anni, assunto su consiglio di John Williams), che porta l’irresistibile energia fisica delle sue conduzioni alle magnifiche musiche di Bernstein (cercate di vedere il film in una sala con un buon impianto sonoro). Come hanno notato in molti, tecnicamente parlando, questo è il primo musical di Spielberg. E la gioia della prima volta (a confronto con quel genere) ricorda quella che Coppola aveva portato al suo meraviglioso fallimento, One From The Heart.

E ILLUMINA la mediocrità e il piatto opportunismo economico/culturale di recenti adattamenti hollywoodiani tratti da successi di Broadway, come In The Heights. Come nel musical originale, anche in questo West Side Story, New York (la luce, i mattoni, le scale antincendio, i caratteri, gli odori.) è un personaggio centrale nella storia. E, come nel musical originale, Tony e Maria (Ansel Elgort e Maria Zegler, di originale colombiano polacca, esordiente al cinema ma popolarissima su YouTube) sono meno vivaci e interessanti dei personaggi di contorno. In testa a tutti, ha un ruolo inventato appositamente per lei – Rita Moreno (che nel film originale era Anita, la fiammeggiante fidanzata del leader degli Sharks, Bernardo). Qui Anita è interpretata con fuoco analogo da Ariana DeBose, e Bernardo da David Alvarez (giovanissimo vincitore di un Tony per Billy Elliott). In un cast pieno di volti sconosciuti, e di giovani talenti, è memorabile anche Mike Feist, nei panni di Riff, il capo dei Jets.