Alle 18,26 del 31 luglio, ora del Texas, Douglas Feldman recluso numero 999326, è stato ufficialmente dichiarato morto. A ucciderlo un’iniezione letale in esecuzione della sentenza emessa. Feldman era rinchiuso nel braccio della morte del carcere di Polunski e in galera dal 1998. Non era uno stinco di santo. Aveva ammazzato un camionista perché aveva spinto lui e la sua moto fuori strada, quindi lo aveva inseguito, raggiunto e aveva esploso una decina di colpi di pistola, andandosene non prima di essersi accertato che l’uomo fosse davvero morto. E pochi minuti dopo aveva ammazzato un altro autista che stava facendo benzina perché gli era di nuovo venuto il sangue alla testa avendo visto un camion così simile al primo. E altre ancora ne aveva combinate. Detto questo suona tremenda quella sorta di doppia condanna, quindici anni di carcere e poi l’iniezione.

Werner Herzog qualche anno fa ha realizzato quattro documentari girati negli Stati Uniti, proprio nel braccio della morte. Titolo On Death Row, episodi di una cinquantina di minuti presentati da diverse emittenti televisive. Materiale molto forte. Ora Herzog, che al Festival di Locarno verrà festeggiato con un Pardo d’onore alla carriera, ha realizzato altri quattro nuovi segmenti inediti della serie che verranno presentati al festival ticinese. Uno di questi nuovi episodi è dedicato proprio a Douglas Feldman.

Lo schema dei documentari è classico. Si parte dall’inquadratura della stanza che precede quella in cui c’è il lettino con le cinghie dove verrà materialmente compiuta l’esecuzione. Se il cinema fosse percepibile anche olfattivamente si respirerebbe un intenso odore di morte. Quei testi sacri posti su un tavolo, il clima complessivo ci ricordano che qui i buoni cristiani, discendenti dei padri pellegrini si nutrono di cultura mortifera. Herzog molto civilmente ricorda con voce off che la pena di morte è ancora in vigore in 33 stati, che in Utah e Oklahoma in certe circostanze è consentita la fucilazione (e l’ultima è stata fatta nel 2010), aggiunge che lui proviene da un paese diverso, con un altro background, che è ospite negli Usa, per questo, pur non condividendola, rispetta la loro scelta di ricorrere alla pena di morte. A quel punto parte il documentario specifico. Herzog intervista non solo il condannato, ma amplia il discorso coinvolgendo i poliziotti che sono giunti sulla scena del crimine, il pubblico ministero, gli avvocati, talvolta anche i parenti sia delle vittime che del condannato. Utilizzando materiali televisivi d’archivio, comprese le registrazioni della polizia, anche solo audio, e miscelandoli con le foto personali, i filmini domestici e le interviste si ottiene un quadro che scava in profondità, con effetto lacerante. Perché talvolta i crimini sono orrendi. Altre volte perché nello spettatore si insinua il dubbio che quell’uomo o quella donna forse non siano davvero i colpevoli.

Non è il caso di Feldman che ha avuto modo di dichiarare come lui avesse condannato a morte le persone che ha ucciso. Quello che colpisce vedendolo e sentendolo è altro. Pur essendo stato un ragazzino decisamente ribelle, con problemi di relazione e di droga già a undici anni (ma lui non si è mai considerato tossico, riconosce di avere preso diverse sostanze, ma di non esserne mai stato schiavo). Poi però il ragazzo studia, diventa analista finanziario, con ottimi risultati perché è decisamente molto intelligente. Ma si stufa. Si chiede che vita sia quella per cui hai fatto un sacco di sacrifici per ottenere un titolo di studio che ti ha portato a lavorare come un cretino e basta. Certo, si guadagna, ma non si vive, risucchiati nello stress lavorativo. Quindi Douglas molla tutto. Inforca la sua moto e se ne va in giro per il Sudamerica. Dalla foresta amazzonica, dove trova la complicità evocativa di Herzog che in quei luoghi ha girato Aguirre furore di Dio e Fitzcarraldo, sino all’estremo Sud dove lo si vede con i pinguini. Poi però la festa finisce. Al rientro non ha lavoro e anche i soldi ormai scarseggiano. Douglas inizia la deriva che lo porterà poi in galera e infine alla morte di pochi giorni fa. Nessun timore della morte da parte sua, nessun approccio religioso “si diventa biomassa”. E all’esecuzione dovrebbe non aver assistito la figlia di una vittima che pur aspettando quel momento e pur volendolo vedere ha dichiarato “temo possa dire qualcosa che mi rimarrebbe addosso tutta la vita”. Nell’incontro Douglas fischia, è un’attività che gli piace, anche cantare gli piace, infatti accenna Fly Me to the Moon, un hit di Frank Sinatra, che in questo contesto suona davvero surreale.

Gli altri episodi sono focalizzati su altre figure. Darlie Routier è in carcere da sedici anni. Condannata a morte con l’accusa di avere ucciso due dei suoi tre figli (anzi, la condanna riguarda solo uno dei due omicidi, l’altro è tenuto di scorta in caso ci fosse qualche gesto di clemenza). Il dubbio è che Darlie sia stata condannata più su basi emotive che su prove inoppugnabili. Robert Fratta invece è un ex poliziotto che ha fatto uccidere la moglie che non ne poteva più di lui. Ora vive nel raggio della morte con Gesù che gli parla. Anche Blaine Milam si trova lì per motivi, in qualche modo, religiosi. Ha ucciso a martellate la figlia di tredici mesi della sua ragazza perché era indemoniata e non avevano trovato altro metodo per compiere l’esorcismo. L’aspetto angosciante sta nel fatto che Blaine è in carcere già da quattro anni e ora ne ha 22. Brutte storie con una postilla, per inquirenti e giudici il male esiste e sin qui saremmo tutti d’accordo, solo che loro ci vedono qualcosa di demoniaco, quindi qualcosa che è in antagonismo con il bene rappresentato dal cristianesimo.

Nell’omaggio che viene reso a Herzog sono compresi anche una decina di altri titoli peccato manchino un paio di documentari poco visti della fine degli anni ’70. Nel 1976 Herzog venne a sapere che un’isola della Guadalupa, nelle Antille francesi, doveva essere completamente evacuata perché il vulcano la Grande Soufrière secondo tutti gli studi scientifici stava per esplodere con effetti devastanti. Tutti se ne andarono, tranne un contadino. Il genio folle di Herzog si illuminò. Con due operatori partì per l’isola. Nacque così La soufrière. Le immagini sono incredibili perché migliaia di persone se ne aerno andate in tutta fretta. Come se si fossero dissolte lasciando tutto intatto alle spalle. Solo che, contrariamente alle previsioni l’inevitabile esplosione non avvenne. L’altro lavoro è How much Wood would a Woodchuck Chuck, uno scioglilingua. Herzog, negli Usa per realizzare La ballata di Stroszek si era imbattuto nel campionato dei banditori d’asta di bestiame che usano una tecnica verbale particolare, molto ritmata e con il flusso di parole che deve essere continuo. Quasi un rap antelitteram, o “forma poetica del capitalismo” come la definisce Herzog.

Ci sarà comunque modo di riassaporare su grande schermo in piazza Grande tutto l’impatto spettacolare rappresentato da Aguirre furore di dio (1972), così come il superbo Nosferatu (1978) entrambi con l’amico-nemico Klaus Kinski. E ancora il delirante Anche i nani hanno cominciato da piccoli (1970), poi Kaspar Hauser (1974) con l’inafferrabile Bruno S., Dove sognano le formiche verdi (1984), l’agghiacciante Grizzly man (2005), altra incursione su situazioni limite, così come Il diamante bianco (2004) ricognizione documentaria sul volo che lo porta di nuovo nella foresta amazzonica sino a The Wild Blue Yonder (2005) in cui fiction e documentario sembrano intrecciarsi

Ma il dato più inquietante sta in My Son, My Son, What Have Ye Done (2009) il film di Herzog prodotto da David Lynch con Michael Shannon protagonista e ispirato alla storia, vera, di Mark Yavorsky, un attore che uccise la madre con una sciabola usata in un film, in un sussulto da tragedia classica. Secondo Herzog, che andò a trovare l’omicida a suo tempo (ora è morto) e lo trovò fuori dal carcere, perché fuori di zucca, si tratta di “un horror senza sangue, motoseghe e trucidume, ma con una strana paura senza nome che ti fa venire i brividi”.