Wim Wenders da sempre è appassionato di fotografia, oltre che, a sua volta, fotografo. Oltre venti anni fa si era imbattuto in un paio di immagini che lo avevano colpito e aveva acquistato quelle stampe. Non sapeva chi le avesse realizzate, ma erano talmente emozionanti, soprattutto il ritratto di una donna cieca, che le aveva appese sopra la sua scrivania. Dove sono rimaste per anni, come momenti anche di ispirazione. Solo in seguito Wim ha scoperto che quelle foto erano state realizzate da Sebastião Salgado. Qualche anno fa i due si sono incontrati e chiacchierando di calcio e fotografia è nata l’idea, Sebastião ha invitato Wim a seguirlo in uno dei suoi tanti viaggi attraverso il mondo. Cosa che da tempo faceva Juliano Ribeiro Salgado, figlio di Sebastião, che aveva già accumulato una gran quantità di materiale. Da lì nasce Il sale della terra, il documentario che Wim e Juliano hanno firmato a quattro mani. Un lavoro folgorante, che è già valso un riconoscimento al festival di Cannes dove è stato presentato in primavera nella sezione Un certain regard, mentre ora il film approda oggi al Roma Film Fest e la prossima settimana al San Marino Film Festival (e in sala distribuito da Officine Ubu).

Le prime immagini che inondano lo schermo ci mostrano Sebastião che osserva il paesaggio famigliare della zona in cui è nato, Aimorés, nello stato brasiliano di Minas Gerais. Scopriamo così la fattoria della famiglia Salgado, che diventerà poi protagonista del racconto, veniamo a sapere degli studi di economia di Sebastião, fondamentali per il suo percorso successivo sia umano che professionale, un po’ alla volta si dipanano le storie di famiglia, l’incontro con Lélia Wanick, che diventerà sua moglie affiancandolo e sostenendolo per oltre mezzo secolo con una vivacità legata a un’intelligenza dinamica, capace di cogliere i problemi ma anche di prospettare soluzioni. Già perché il film è come un polittico che non affronta un solo aspetto, ma offre allo spettatore diverse prospettive: il rapporto padre figlio, le vicende famigliari, la depressione di Sebastião dopo avere visto l’orrore provocato dall’uomo, lo sbocco offerto dalla riforestazione della zona della vecchia fattoria di famiglia, la scoperta creativa dell’ecologia e delle ultime tribu non contaminate dall’invasività della nostra civiltà (lavori che sono poi confluiti in Genesis, vedi box). Il tutto raccontato attraverso gli infiniti reportage che Sebastião ha compiuto dopo avere abbandonato il lavoro istituzionale di economista, prima per un’azienda di caffé, poi per la Banca mondiale, per cui era andato in Africa scoprendo così la sua vera vocazione: la fotografia. Lavoro non facile per quella giovane coppia, all’epoca di stanza a Parigi, ma entrambi avevano capito che quello non era “un lavoro”, bensì “il lavoro” che avrebbe dato poi senso a tutta la loro vita.

L’attenzione di Sebastião è per le persone, per le loro condizioni di vita e di lavoro. Il suo primo grande e sconvolgente lavoro che si impone all’attenzione internazionale riguarda Serra Pelada, degno degli incubi del Monte Calvo senza bisogno di attendere la notte. Decine di migliaia di persone che sono confluite in una cava sognando di diventare ricchi con l’oro, costretti a un lavoro spaventoso. E c’è un’immagine che sembra sintetizzare tutto, un campo larghissimo dove un’umanità smarrita e invaghita si arrampica per scale impossibili, altissime e davvero artigianali, trasporta sacchi di fango, rovista nelle pareti del monte, cammina, si muove, una sorta di immane formicaio, solo che gli insetti sono uomini e basterebbe una mossa sbagliata per farli schiattere. Una fotografia in bianco e nero, come tutte quelle di Salgado, che ripresa e ingigantita sul grande schermo diventa davvero la concretizzazione dell’Inferno dantesco o la rappresentazione di quel che doveva essere la costruzione della torre di Babele.

Così infatti la commenta anche Sebastião, raccontando che anche lui è salito e sceso senza sosta per quelle scale, piazzato in quella che Wim ha definito la camera oscura, ossia uno spazio, davanti allo schermo dove venivano proiettate le foto, in cui Salgado poteva commentare e rispondere alle domande di Wim mentre, grazie a uno specchio, poteva contemporaneamente guardare le immagini e lo spettatore.

Le immagini in bianco e nero di Sebastião sembrano davvero dare corpo al fatto che la fotografia significa disegnare con la luce. E i suoi sono disegni che esplodono letteralmente, inondando di emozioni infinite chi le sta osservando. Anche perché lui non si limita a fotografare, va e condivide esperienze, i suoi reportage implicano talvolta anni di lavoro. Nascono così opere indimenticabili sull’America Latina, sulla Migrazione, sul Lavoro nel mondo, comprese le immagini sullo spegnimento dei pozzi abbandonati in fiamme da Saddam Hussein.

Accanto a questi ci sono poi i momenti davvero devastanti: la carestia nel Sahel e pochi anni dopo il genocidio in Ruanda. E le sue foto raccontano storie terribili che lui stesso rivive commentandole, perché come detto non si limita a fotografare, lui stesso per poter raccontare e documentare certe storie deve viverle, o quantomeno condividere in parte le esperienze delle persone che sta raccontando. Ma pur abituato all’orrore Sebastião decide che è troppo, che l’uomo che lui ha tanto amato forse non merita questo sentimento, gli uomini sanno essere crudeli come nessun animale potrà mai essere. Il momento è quello della depressione profonda, di un’amarezza che sembra senza fine.

Qui entra in gioco di nuovo Lélia che si inventa un’idea apparentemente folle: riportare all’antico splendore di foresta pluviale tutta la zona che circonda la fattoria della famiglia Salgado, ormai ridotta a colline brulle e polverose. E la pianta della mata atlantica fa il suo lavoro, con fatica, all’inizio con difficoltà, ma alla fine oltre due milioni di piante hanno invertito completamente il processo di desertificazione della zona, ora di nuovo foresta con tutto il portato che ne consegue.

Una vittoria emozionante che permette a Sebastião di ritrovare la voglia di fotografare, questa volta il pianeta, gli animali a partire dalle Galapagos, e ancora Artico e Antartico, Siberia e Brasile, ritrovando anche gli uomini ma quelli che non appartengono al mondo come noi lo conosciamo, come le più remote tribù indigene del Borneo o della Foresta Amazzonica.

Sulla base dei filmini famigliari, dei materiali dei reportage di Juliano al seguito del padre, sullo schermo Sebastião si è trasformato il giovane capellone degli anni ’70, quasi un immagine da Cristo (fatto che in alcuni momenti gli è tornato utile), ora non ha più capelli, ma gli occhi chiari sono rimasti vivacissimi e curiosi. Wenders lo fa emergere in tutta la sua dimensione umana, dai drammi famigliari, il secondo figlio nato affetto da sindrome di Down, alla necessità di instaurare un rapporto con Juliano, a lungo trascurato durante la sua infanzia a causa dei mille lunghi viaggi del babbo, non ha invece bisogno di altro la straordinaria figura di Léila vera colonna portante senza la quale il talento di Sebastião non avrebbe mai potuto essere valorizzato. Un talento davvero unico.

Ci sono immagini in cui la macchina da presa è nella foresta per documentare la caccia degli indigeni, si vede anche Sebastião, armato di macchina fotografica, poi però è sconvolgente vedere quello che lui è riuscito a catturare mentre era già tutto lì, davanti ai nostri occhi, incapaci di fissare quel momento che lui invece ha trasformato in uno scatto indimenticabile che sembra fatto in studio con qualche trucco e che invece era solo un indigeno, un albero e la luce da dietro colti in quel preciso istante.

Wenders aveva già detto che “il mondo è a colori, ma la realtà è in bianco e nero”, forse per questo la sua fascinazione per Salgado ha potuto concretizzarsi in questo stupefacente omaggio che ha l’intensità del capolavoro (per certi versi analoga a quella che già aveva avuto nei confronti di Pina Bausch).

GENESI

Approdata a Milano, presso il Palazzo della ragione – Fotografia (piazza Mercanti) la mostra di Sebastião Salgado Genesi, a cura della moglie Léila Wanick, rimarrà aperta sino al 2 novembre. Genesi è un progetto iniziato nel 2003 e durato 10 anni, una sorta di canto d’amore per la terra. Con 245 eccezionali immagini che compongono un itinerario fotografico in un bianco e nero, la mostra racconta la rara bellezza del patrimonio unico e prezioso, di cui disponiamo: il nostro pianeta. Genesi è suddivisa in cinque sezioni che ripercorrono le zone in cui Salgado ha realizzato le fotografie: Il Pianeta Sud, I Santuari della Natura, l’Africa, Il grande Nord, l’Amazzonia e il Pantanàl.